Perchè è Nostro Dovere

Perchè è Nostro Dovere

Psicologi e Psicoterapeuti fra Residenzialità Illusioni e Società Civile

 

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Nei primi giorni del Giugno 2015 la nuova Giunta che governa la Regione Piemonte ha approvato una delibera sul riordino della assistenza ai malati psichici, centrata sul tema della Residenzialità.

Questo atto “dovrebbe” portare ordine nelle strutture che accolgono i pazienti psichiatrici, le comunità protette (ex CPA e CPB) le comunità alloggio ed i Gruppi Appartamento.

Il testo della delibera è circolato in modo informale, ad oggi (fine Giugno) non è ancora stato pubblicato nell’apposito bollettino.

Le reazioni sono state unanimi, dal Servizio Pubblico alle Associazioni di parenti e pazienti, dal privato sociale al privato profit,  dai pazienti agli operatori: tutti e sottolineo tutti si sono preoccupati e sono rimasti allibiti per usare un eufemismo.

La Giunta, senza seguire l’iter democratico previsto dalla legge (passaggio in Commissione Sanità e voto in Consiglio Regionale) e senza coinvolgere le parti sociali, ha approvato una delibera che di fatto rischia di cancellare gli ultimi venti anni di sperimentazioni Piemontesi e scaraventare la psichiatria di cinquanta anni indietro. I Gruppi Appartamento e persino alcune Comunità per come le conosciamo cesserebbero di fatto di esistere.

Le spiegazioni fornite sono pretestuose e consistono in interpretazioni opinabili ed univoche di normative nazionali che al fondo a ben vedere contengono un unico razionale (a meno di cercare altre verità peggiori): l’imperativo è uno solo e si diffonde dal Cuneese al Canavese “risparmiare e risparmieremo!!”

Nel pieno attuarsi della suddetta DGR la categoria professionale degli psicologi, ma si potrebbero aggiungere anche gli educatori, verrebbe profondamente colpita.

Ma perchè è nostro dovere come comunità professionale occuparci della vicenda? “Solo” per questione di soldi (lavoro) o c’è anche dell’altro?

Proveremo ad ipotizzare alcuni scenari e possibili risposte partendo da alcuni punti di repere oramai irrinunciabili.

LA QUESTIONE LAVORO

Si può senza dubbio affermare che negli ultimi vent’anni lo psicologo, al di là del suo inquadramento amministrativo, ha profusamente abitato la psichiatria ed in particolare la residenzialità. Una stima approssimativa indica che oggi circa duemila colleghi lavorano in strutture residenziali, siano esse comunità o gruppi appartamento.

Migliaia di giovani colleghi hanno imparato, sofferto e profuso molte energie a contatto con la follia entro contesti residenziali con regime di protezione variabile.

“Facendo l’educatore” per poi diventare un grande analista o psicoterapeuta e/o supervisore, ci siamo ingaggiati, talvolta con vergogna (“devo pagare la scuola”), in un campo che abbiamo in realtà contribuito a ridefinire in modo significativo.

Spesso sfruttati, noi neo-precari, abbiamo, insieme agli educatori (quasi sempre trattati meglio dal punto di vista economico), di fatto costituito le fondamenta della cura\riabilitazione Piemontese.

Del senso che questo può aver avuto, diremo poi, qui ci limitiamo ad evidenziare un fenomeno strano, surreale e quasi innaturale.

Se in Piemonte un azienda con cento operai chiude (ed è un dramma) e cento famiglie hanno problemi a tirare avanti, i Sindaci scendono in piazza con tanto di fascia tricolore. Ben venga che la politica sia presente nel suo alveo naturale, la società, ma se duemila psicologi restano a casa?

Beh che volete? Lo psicologo deve fare altro, quella roba lì non è da psicologi. E via dicendo con le più svariate metafore e paragoni. Ne prendo uno, il più sentito, quello che alcuni colleghi stessi condividono, quello più fuorviante e che se esaminato con attenzione ci porta nella seconda questione.

“I medici devono fare i medici, il resto lo devono fare gli infermieri!” Sotteso il pensiero che gli psicologi corrispondano ai medici e gli educatori o altre figure – scegliete voi fra le molte possibili – agli infermieri.

Mai metafora fu più fuorviante, oltre che essere radicalmente inutile  svilisce alcune professionalità riproponendo fra le righe un concetto di lotta di classe.

Gli psicologi, laureati e specializzati, sono più ricchi e tutelati, faranno i soldi e devono lasciare ai “più poveri” e “meno competenti” educatori quel tipo di impiego.

Vedremmo guardando bene che nella realtà di oggi i ruoli sono più che rovesciati.

Comunque arriviamo al punto successivo affrontando le ragioni di senso ed opportunità che delibere a parte, giustifichino la presenza nel quotidiano degli psicologi nell’ambito di cui ci stiamo occupando.

LA QUESTIONE QUALITA’

Che contributo può portare un collega lavorando in un gruppo appartamento? Se fa la spesa, il bucato ed aiuta i pazienti a far da mangiare fa il lavoro di un altro? Vivendo la quotidianità, spesso faticosa, con i pazienti si appropria di un ruolo non suo oppure no?

Detta pane e salame: tira a campare per pagarsi l’affitto, il mutuo, la scuola di specializzazione ed i pannolini della figlia o c’è anche dell’altro?

Questa domanda ha una portata assai ampia e ci interroga direttamente su cosa sia oggi fare lo psicologo, si può rispondervi in due modi: il primo è dire sì e tanti saluti, il secondo è provare ad articolare un ragionamento che non può che confluire nel sociale e nella società, come vedremo in seguito.

Dopo un silenzio assordante l’Ordine degli Psicologi della Regione Piemonte ha finalmente deciso, senza imbarazzi retrò, di occuparsi direttamente della vicenda. Sono stati prodotti documenti, anche discordanti, cui si rimanda per approfondire la questione.

Fra gli altri questo:

http://www.psicopoint.com/la-volpe-e-la-mela-considerazioni-sulla-presenza-degli-psicologi-nei-gruppi-appartamento/

Non volendo farne un sunto preferiamo richiamare qui alcune illusioni prototipiche vissute dai giovani colleghi che ormai hanno quasi quarant’anni.

“Lavorerò in psichiatria finche non riesco a fare altro”, “la psicoterapia è un altra cosa”, ” non vedo l’ora di occuparmi solo di pazienti privati”, “voglio fare il supervisore o il coordinatore”, “faccio il volontario per anni in ASL poi appena c’è un concorso verrò assunto”.

Basterebbe un occhiata ai numeri e due riflessioni sull’acquisizione di competenze per sfatare questi mitemi, tutti originati da bias di sistema di ordine storico ed epistemologico di cui parleremo più avanti.

In Piemonte c’è uno psicologo ogni settecento abitanti, i dati tedeschi paragonabili ci parlano di uno ogni cinquemila. In Piemonte presto saremo in settemila.

La matematica ci dice chiaro che le suddette illusioni sono tali a meno di svendere la professione, cosa che sta capitando (sedute a prezzi stracciati, fatture virtuali, cioè mai emesse e tanto altro); viceversa i competitor sono troppi e tanti. In buona sostanza non si può competere con i terapeuti più conosciuti, che hanno tariffe più alte, a meno di compiere nefandezze come quelle su accennate. Se un giovane terapeuta ha dieci pazienti stabili può dirsi fortunato, questo numero possiamo assumerlo come riferimento di mercato, sotto questa cifra si lavora quasi in perdita, sempre ripetiamo facendo fattura e praticando tariffe sensate, usanze ahimè in declino.

Nel pubblico gli psicologi non vengono più assunti anzi, ancora una volta basta osservare i dati, invito i lettori a procuraseli non citandoli di proposito, per capire come siamo “visti” dal Sociale.

Se in un ospedale dimezzassero i medici o gli infermieri sono certo che dovrebbe chiudere.

Ed ancora come si fa ad acquisire competenze supervisorie, di coordinamento, od anche solo psicoterapiche con i cosìddetti pazienti nevrotici se prima non ci si confronta con patologie severe vedendone in gran numero?

Ciò che ha sorretto questa forma-pensiero illusoria è un insieme di fattori, alcuni culturali, altri di mercato. Vediamone a titolo di esempio solo tre:

  • la sopravvalutazione del mondo interno e del sentire a scapito del pensare e pensarsi immersi in una cultura storicizzata appartenente ad una società. Figli inconsapevoli dei modelli analitici o delle contro-reazioni ad essi (ad esempio la terapia della Gestalt ma vale anche per altri “modelli”) abbiamo continuato a pensare che la psicoterapia avesse alcuni oggetti ed un solo “vero” luogo dove poteva realizzarsi: lo studio, le sedie disposte in un certo modo, il divano ed alcuni pazienti “chimera” molto ricchi che ormai non esistono quasi più. Poveri noi…
  • la conseguente centratura sul dentro che ci ha fatto completamente ignorare il fuori. Il mondo cambiava e noi No. Abbiamo continuato con un certo snobismo intellettuale a sottovalutare i cambiamenti sociali, disinteressandocene e nel peggiore dei casi giudicando spazzatura tutto ciò che stava fuori dalle stanze degli analisti/terapeuti che ci hanno “curato” e cui noi tendevamo a somigliare. Questo in parte spiega la vergogna a dirsi “facente funzione educatore”
  • il cane che si mangia la coda. Lo psicologo che in primis è mercato di se stesso. A dispetto del mondo reale le scuole di specializzazione, cui anelavamo per fare quanto sopra, hanno continuato a sfornare terapeuti, poi fare master, poi a formare i counselor e via dicendo. Siamo stati noi l’oggetto del nostro stesso mercato. Giovani psicologi oggetto-mercato di psicologi meno giovani. Questo in economia porta inevitabilmente ad un default, ed infatti ci siamo arrivati. Le scuole vedono drastici cali dell’affluenza ed a maggior ragione alcune sostengono ufficiosamente “Ahh se non avessimo i counselor dovremmo chiudere”. E chiudete chissene!

Come possiamo “reagire” a questo stato di fatto? Come possiamo ingaggiarci con il sociale sincronizzandoci finalmente con la realtà. Perchè è un nostro preciso dovere farlo?

Veniamo alla questione etica.

LA QUESTIONE ETICA

Ormai etica per noi ha solo un significato: efficacia ed impegno sociale quindi politico nel senso nobile del termine.

A costo di sentirci dare degli eretici, non possiamo pensare ad altro che non sia una continua valutazione del proprio operato. Pensate alle analisi interminabili che facciamo dove spesso giudice giuria e accusato coincidono. Pensate a quanto poco ci siamo spesi per dimostrare l’utilità sociale dei nostri saperi indipendentemente da dove essi vengano applicati.

Pensate allo iato esistente fra clinica ed Università. Se l’Università di medicina scoprisse un nuovo antibiotico, ai medici verrebbe naturale interessarsene. Per noi talvolta la Facoltà di Psicologia è poco più che un parcheggio strapieno.

Solo un ideologia è bastante a se stessa, qualunque forma di pensiero scientifico specie se con un mandato sanitario prevede un ingaggio con una qualsivoglia forma di valutazione.

Ditemi se vi è mai capitato di trovarvi ingaggiati a dimostrare l’utilità del vostro operato al di là della buona fede, delle sensazioni o della relazione con i pazienti privati.

Questo proiettato nel lavoro con le Istituzioni intese a risparmiare e pretendere qualità in base a determinati standard diventa assai complicato e cogente.

Ne consegue che se lavoriamo su temi di ampia portata e che prevedono un forte embricamento con il sociale e con le seguenti riflessioni legislativo-normative diventa impossibile esimerci dal prendere delle posizioni politiche, nel senso più alto del termine.

Quando anni or sono abbiamo deciso di “far politica”, – qualunque azione nel sociale di fatto è anche una azione politica – molti colleghi anche esperti, ci hanno chiaramente detto “non esponetevi troppo”, “continuate a fare solo i clinici”. Ci abbiamo riflettuto molto ma ci siamo veramente sentiti di far clinica specie nei momenti in cui abbiamo cominciato a frequentare i luoghi dei decisori, cercando di impedire o favorire alcuni processi che clinicamente avrebbero avuto conseguenze, funeste o meno.

Che differenza con l’analista nel mito, astinente, lontano dai riflettori, rinchiuso nel suo studio che ne dite?

ED INFINE

In questa ottica ci sembra irrinunciabile provare a fare qualcosa, e cominciare a considerare parte fondante del nostro sapere una vera, autentica, al limite ingenua “partecipazione” alla res politica.

Siamo immersi nel sociale ne veniamo influenzati ed in certa misura lo influenziamo, è bene dismettere la farsa della neutralità.

Anche i nostri “pazienti privati” che ci vedono sui giornali, sembrano averlo capito bene.

Queste valutazioni ovviamente sono provvisorie, in attesa che una qualche forma di ricerca indaghi l’efficacia della psicoterapia condotta da chi ha visibilità pubblica. Questa valutazione ovviamente non sta a noi, citiamo queste riflessioni con mera intenzione euristica.

E’ veramente nostro dovere partecipare e nello specifico impedire lo sfacelo della Salute Mentale che si prepara in Piemonte. E’ un nostro dovere primariamente clinico; con ciò intendiamo anche la capacità di far rete e promuovere pensiero. Creare links, presidiare svincoli, tessere trame nuove, non sono forse questi atti tipici dello psicologo e del terapeuta?

Non possiamo voltare la testa dall’altra parte questa volta. Nessuno farà qualcosa al posto nostro e nel migliore dei casi il nostro posto sarà ancora una volta tristemente vuoto.

Dobbiamo tornare ad esistere nei luoghi dove si formano giudizi e pregiudizi, onde evitare che la lamentela e la vergogna siano i nostri unici strumenti.

Se è plausibile che per chi detiene un mandato di cura effettuare i seguenti passaggi, tagliati con l’accetta per ragioni di spazio:

etica = efficacia = valutazione = ingaggio con i valutatori = azione sociale = politica

come possiamo non scendere in campo?

In tutte le altre professioni sanitarie esistono da sempre circoli simili, nel mondo medico spesso valutazioni tecniche pongono problematiche di ordine sociale. Sta alla società civile ed ai suoi rappresentanti poi prendere le decisioni.

Ma noi come categoria quante volte abbiamo “obbligato” la politica a prendere in considerazione problematiche tecniche che diventano sociali e poi cliniche?

Quante volte è accaduto l’inverso invece? Quanto spesso siamo stati obbligati a rincorrere quelle scelte fatte da altri di cui nemmeno coglievamo il senso?

Questa volta accadrà lo stesso? Ancora una volta ci squalificheremo da soli?

Non possiamo pensare che i nostri pazienti gravi che abitano strutture civili ed inclusive vengano nuovamente rinchiusi in minicomi, tanto meno siamo disposti a tollerare che ci venga risposto che la nostra protesta è solo una questione di lobbying professionale.

“Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo.” diceva  Ernesto Guevara, come possiamo sentirci terapeutici se non avvertiamo quella vampa e quel rossore? Se queste non sono questioni cliniche ed etiche con la C e la E maiuscole di cosa diavolo stiamo parlando?

Ai posteri..

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