Contributi 2: La rete dei Gruppi Appartamento dell’ASLTO1. Storia ed Attualità

L’esperienza maturata in più di 15 anni dal DSM dell’ASL Torino 1 nell’ambito dei Gruppi Appartamento (GA) offre importanti spunti di riflessione sul ruolo che tali strutture possono avere nel mondo della salute mentale, in particolare in contesti urbani di medie e grandi dimensioni.

L’ASL Torino 1 gestisce infatti una rete di 64 GA, presso i quali abitano circa 260 pazienti, che rappresentano il 41% (260 su 631) dei pazienti in carico all’Area Residenzialità nel suo completo (che comprende anche CPA, CPB, RSA e RAF).

Tale percentuale rispecchia una scelta compiuta a partire dal 1997 anno in cui, in seguito all’uscita della DCR 357 (n.357-1370 del 28/01/1997) che normava i Dipartimenti di Salute Mentale nella regione Piemonte, fu aperto il primo GA. Tale normativa inquadra i GA come strumenti per la riabilitazione, al pari dei sussidi terapeutici e delle borse lavoro, a totale carico di responsabilità del DSM. Non essendo quindi considerati strutture residenziali, essi non prevedono richieste formali specifiche sul luogo (sono alloggi di civile abitazione) e dunque non necessitano di autorizzazione né sono sottoposti a vigilanza, il che ha contribuito a renderli strumenti di minor impatto economico sui bilanci dei DSM.
Fin dagli esordi, i Gruppi Appartamento, prima ancora che assolvere ad una funzione riabilitativa, volevano innanzitutto essere strumento per garantire ai pazienti psichiatrici il recupero del diritto di cittadinanza e di una vita dentro al tessuto cittadino, per impedire che venissero sradicati e vivessero sparsi nei territori rurali, come era avvenuto fino a quel momento. Sostenere tale diritto rappresentava una base imprescindibile ed era parte integrante del processo di cura, in quanto permetteva prima di ogni altra cosa il recupero della dignità della persona. Il GA voleva anche essere il luogo in cui le persone che in passato avevano vissuto molti anni in grandi istituzioni potessero riacquisire la libertà del proprio tempo.
Oggi come allora i GA sono intesi come strumento terapeutico e riabilitativo prezioso e potente: un luogo in cui la persona può attuare un processo di soggettivazione e di crescita volto al benessere e alla salute. Il GA è un luogo dell’abitare, dimensione fondante della vita umana, base su cui è possibile attivare un progetto di intervento terapeutico che si articola su molti livelli: la cura della propria persona, il gruppo, il quartiere e la città, il rapporto con gli altri, la famiglia, ecc.
I 64 GA a gestione diretta dell’ASL TO1, oltre che dall’inquadramento normativo, sono accomunati da alcune caratteristiche: in primo luogo si trovano tutti nel territorio cittadino, inseriti nel territorio urbano, in particolare in aree e quartieri della città non degradati e non estremamente periferici. Inoltre la gestione diretta dell’ASL messa in atto tramite il lavoro di coordinamento di un’équipe multidisciplinare (l’équipe dell’Area Residenzialità), garantisce un modello di lavoro condiviso nei singoli GA, tramite percorsi formativi comuni a tutti gli operatori e momenti di confronto strutturati con frequenza regolare.

Altro aspetto importante e comune a tutti i GA è il rispetto del modello di continuità terapeutica: chi abita nei GA, infatti, continua ad essere seguito dal CSM di competenza, che integra il proprio lavoro con quello dell’équipe del GA.
Nell’esperienza dell’ASL TO1 sostenere questa posizione in una rete così estesa di Gruppi Appartamento ha richiesto al DSM un grande sforzo organizzativo e metodologico, a cui si è aggiunta una certa dose di creatività, senza la quale non sarebbe stata possibile la costruzione di un dialogo costante tra molte organizzazioni diverse, oltre che tra operatori, utenti e famigliari. È un confronto da cui non si può prescindere, indispensabile per evitare da un lato una rigidità cronicizzante e dall’altro un caos confusivo e poco efficiente.

IL GRUPPO VALUTATORI DEI GA
Nel 2007, in seguito all’unione delle due vecchie ASL 1 e 2 nell’attuale ASL TO1, è emersa con forza la necessità di monitorare e valutare la qualità del servizio offerto dai GA: il moltiplicarsi degli alloggi e la conseguente rilevanza della spesa annua destinata all’attività dei GA lasciava emergere, infatti, una maggiore complessità sia dal punto di vista gestionale ed organizzativo sia metodologico e clinico.
Il confronto tra tutti gli attori che compongono in mondo dei GA (ASL, Associazioni di Familiari, Associazioni di Utenti, Cooperative Sociali, SRL, ecc.) ha portato alla scelta di una Valutazione Partecipata della Qualità, che prevedesse la partecipazione attiva e paritaria di operatori, utenti e familiari.
La Valutazione Partecipata, nel seguire le linee tracciate dall’OMS nel Piano d’Azione Mondiale per la Salute Mentale (2013-2020) rispecchiava, inoltre, la scelta del DSM di incentivare una comunicazione il più possibile ampia e multidirezionale, che consentisse di dare voce e ascolto anche alle opinioni di chi aveva un’esperienza diretta dei servizi offerti.
Nasce dunque nel 2007 il progetto “Dove c’è condivisione c’è casa: creazione di un soggetto collettivo per l’autovalutazione e l’autoaccreditamento dei GA dell’ASL TO1”, in partnership con le Associazioni Insieme e Di.A.Psi, con l’obiettivo di costruire un metodo di valutazione della qualità dei GA che preveda la partecipazione attiva di utenti e familiari e rispecchi la ricchezza e le peculiarità del suo oggetto d’indagine, oltre che condividerne la natura collettiva e partecipativa e di attivare un processo di empowerment per utenti e familiari.
Si parla di auto-valutazione ed auto-accreditamento in quanto, in questo caso, l’esercizio dei valutatori non può essere disinteressato: i giudizi espressi, infatti, stimolano un processo in divenire in cui l’ultima parola non è mai pronunciata ed in cui viene promosso un confronto continuo; inoltre si parla di soggetto collettivo in quanto rappresentante di più punti di vista, paritario e impegnato in uno sforzo costante di esplicitare valori e parametri di giudizio.
Il progetto si è attuato in 3 fasi:

1) Costruzione di uno strumento di valutazione collettivo e paritario (svoltasi sotto la supervisione dell’Istituto di Ricerca Farmacologica Mario Negri di Milano e conclusa alla fine del 2008);

2)Percorso di formazione rivolto ai Valutatori di GA (attivazione di un ciclo di formazione nel 2008 ed uno nel 2012);

3)Valutazione dei GA, somministrazione della griglia ed elaborazione dei dati (iniziata nel 2009 e tutt’ora in corso con cicli di valutazione di ogni singolo GA a frequenza annuale, per u totale di circa 150 valutazioni, che hanno coinvolto direttamente circa 500 abitanti di GA, per rilevarne opinioni e soddisfazione. Ogni anno sono coinvolti circa 40 Valutatori tra utenti, famigliari e operatori).

Nel 2011 la volontà di avviare una riflessione puntuale sugli indicatori di qualità degli interventi in Gruppo Appartamento, a più di dieci anni dalla loro apertura, ha esitato nella costituzione di un gruppo di confronto e intervisione tra operatori dei GA, divenuto poi ufficialmente un percorso di formazione, conclusosi nel Dicembre 2013.

A tale iniziativa hanno partecipato le diverse figure professionali coinvolte nel lavoro in GA, e dunque psicologi, infermieri, educatori ed OSS provenienti dalle diverse agenzie dipartimentali, e dunque dai CSM, SPDC e dai GA, con l’obiettivo di far emergere il punto di vista degli operatori rispetto agli indicatori di qualità e i nodi critici del lavoro in Gruppo Appartamento. Infatti, per riuscire a sostenere nella quotidianità interventi efficaci ed efficienti, nasceva la necessità anche per gli operatori di uno spazio di riflessione sul proprio oggetto di lavoro.

GLI INDICI DI QUALITÀ PER IL LAVORO NEI GA
Il Gruppo Valutatori ed il Gruppo Operatori, iniziative messe in campo per governare una rete così estesa e complessa di GA, hanno consentito di riflettere a lungo sulle peculiarità di un simile strumento terapeutico, rinnovando la convinzione non solo della sua maggiore efficienza rispetto ad altri tipi di intervento possibili, pure da un punto di vista economico, ma anche il valore aggiunto della partecipazione attiva di tutti gli attori coinvolti.
È stato dunque possibile identificare alcuni indici di qualità, per il lavoro in GA:
 Da un punto di vista strutturale gli appartamenti, che per normativa non possono accogliere più di 5 pazienti per unità abitativa, debbono garantire: spazi personali vivibili, spazi comuni ampi e accoglienti, camere personalizzate, alloggi inseriti in quartieri non degradati e ben collegati, arredamenti curati e funzionali.
 Nel gruppo è fondamentale che si crei un clima caratterizzato da rispetto reciproco, attenzione all’altro, calore, collaborazione, rispetto della libertà reciproca. Il gruppo degli abitanti del GA è infatti elemento cardine dell’intervento, rappresentando di per sé una risorsa per il singolo e parte integrante del processo di cura e di risocializzazione.

È di grande importanza la partecipazione e la regolarità di momenti chiamati “riunione della casa”, in quanto garantiscono una possibilità reale di confronto e condivisione in relazione a questioni organizzative e domestiche, ma anche uno spazio importante per affrontare costruttivamente eventuali conflittualità instauratasi all’interno del gruppo o tra utenti e operatori.
 L’organizzazione della quotidianità deve essere calibrata sulle caratteristiche specifiche del gruppo di abitanti: se, infatti, da un lato una quotidianità troppo strutturata (orari regolati per sveglia e pasti, turni pulizie, cucina o spesa, menu predefinito) rischia di essere fattore cronicizzante, specie per soggetti dotati delle risorse necessarie per auto-organizzarsi, dall’altro una strutturazione eccessivamente lassa potrebbe dar origine a situazioni caotiche o conflittuali, oppure a stili di vita poco salutari, se non dannosi.
 È necessario che l’operatore sappia mantenere il delicato equilibrio tra la dimensione di supporto e quella di stimolo, evitando quindi di sostituirsi agli utenti quando non strettamente necessario e sostenendo invece la riattivazione delle risorse e delle competenze del singolo, lasciando lo spazio per sperimentarsi nell’affrontare gli ostacoli e le difficoltà, pur mantenendo viva una presenza in grado di infondere coraggio e fiducia. A livello metodologico questo si traduce nella logica del “fare con” i pazienti, anziché del “fare per”, sottolineando la necessità di mantenere la capacità di cogliere e accogliere i bisogni unici dei pazienti, anziché intervenire sulla base di progetti standardizzati.

Basilare appare il lavoro di rete tra le diverse agenzie coinvolte nei progetti terapeutici, l’intervento attuato nei GA, infatti, si integra con il lavoro svolto presso gli ambulatori (CSM) e, in caso di ricovero, presso gli SPDC. È quindi necessario che l’inserimento di ogni nuovo utente in un GA, oltre a tener conto delle caratteristiche del singolo e del gruppo nel quale verrà inserito, si basi su una reale condivisione di obiettivi che coinvolga tutti i partecipanti al progetto (CSM, SPDC, GA, ecc.), al fine di costruire una indispensabile alleanza tra i vari attori della cura.
Flessibilità, responsabilità e libertà sono i termini con cui gli operatori identificano nella sostanza gli indici di qualità del proprio lavoro in GA: la necessità imprescindibile che gli operatori si assumano la responsabilità non solo delle scelte operative, ma di esprimere il proprio punto di vista rispetto al progetto di cura, insieme con la necessità di una condivisione delle responsabilità con i colleghi dell’intera equipe curante; un certo grado di flessibilità, tanto del singolo operatore quanto dell’equipe, nell’adattare il modello organizzativo e le relative turnazioni sulla base delle esigenze che possono scaturire da situazioni di crisi o post-acuzie; la libertà dell’operatore di compiere delle scelte a tutela del paziente, potendo liberamente scegliere di agire o di non agire, non seguendo sempre e solo delle logiche economiche.
Flessibilità, responsabilità e libertà dell’operatore si traducono inevitabilmente in flessibilità, responsabilità e libertà del paziente

SINTESI NORMATIVA AD OGGI

SINTESI NORMATIVA

 

La necessità di colmare il “vuoto normativo” (fabbisogno, accreditamento) rispetto alla residenzialità dedicata agli utenti della Salute Mentale pare un processo in fase di definizione. In questi ultimi anni le proposte e i modelli hanno descritto scenari vari, arrivando oggi a una proposta (Cavallera) molto complessa e che rischia di allontanare questa tipologia di servizio dai reali bisogni dell’utenza.

Ci sono molte leggi e delibere che forniscono parametri e dettano regole ma possiamo sostanzialmente individuare 3 vincoli normativi attorno ai quali bisogna ragionare:

 

  • il recepimento dell’accordo Stato – Regioni che individua tipologie di strutture in base al livello di intensità e rimanda alla Regione la definizione dei parametri specifici
  • il piano di rientro economico 2013-2015 della Regione Piemonte che definisce “eccessivi” gli attuali posti letto sia delle CPB che dei gruppi appartamento e quindi chiede una razionalizzazione
  • l’accreditamento (strutturale e organizzativo) necessario per l’erogazione di tali servizi

 

L’accordo Stato-Regioni prevede la differenziazione delle strutture in base sia alle necessità terapeutico-riabilitative sia alle necessità assistenziali: sappiamo come queste 2 dimensioni siano fortemente interconnesse e sappiamo come l’assistenza spesso includa la riabilitazione e come la netta divisione tra i 2 aspetti sia solo un artificio che solo in alcuni casi poco frequenti può avere un senso. Fondare, invece, la riorganizzazione massicciamente su tale aspetto appare un difetto che porta ad un conseguente scenario in base al quale le strutture e gli alloggi sono o prevalentemente riabilitativi o prevalentemente assistenziali; si tratterebbe cioè di costruire dei servizi cui devono adattarsi i pazienti (come se dovessimo fornire dei vestiti che devono andare bene alle persone, prima ancora di prendere le loro misure). Gli interventi sull’utenza psichiatrica, invece, devono essere costruiti su misura perché le necessità terapeutiche e assistenziali (e molte altre) assumono tutte le volte un mix unico e irripetibile, così come unici e irripetibili sono gli individui che le incarnano. Anche l’organizzazione del personale appare rispondere più ad un’esigenza di chiarezza normativa che ad un reale bisogno del paziente: nell’accordo stato regioni si trasferisce all’interno della struttura o dell’alloggio tutto il necessario fabbisogno del personale (dall’oss allo psichiatra); partendo dalla realtà di oggi – spesso efficace ed efficiente – le figure professionali che ruotano introno ai pazienti arrivano in misura varia dal DSM (o CSM) e dall’ente gestore della struttura o dell’alloggio e spesso è proprio l’interconnessione tra infermiere del CSM, Psicologo dell’ente gestore e medico di base che descrive quel contesto professionale utile all’inclusione sociale ed evita il rischio di affidare la gestione del paziente in toto ad un ente.

Insomma partendo dalle esigenze normative (ed economiche) si rischia di voler ingessare un sistema di servizi che deve essere mobile, flessibile e girare intorno ai bisogni dell’utenza (un film non può essere una fotografia).

 

Il piano di rientro economico obbliga la regione Piemonte a ridefinire il sistema di servizi residenziali per la psichiatria: oggi in Piemonte ci sono 56 CPB accreditate (per 1067 posti letto + altri 441 in “comunità alloggio”); il piano di rientro sostiene che sono troppi e che, in base al fabbisogno nazionale di posti letto, vanni ridotti a 900 tra CPB e Comunità Alloggio (invece di 1508).

I gruppi appartamento o alloggi assistiti in base al censimento effettuato dalla Regione nel settembre 2012 forniscono 1500 circa di posti letto. Ancora non si conosce il fabbisogno di posti letto per quanto riguarda i gruppi appartamento ma si presume che i 1500 circa disponibili ad oggi siano eccessivi.

Ora, alcune domande e preoccupazioni: se, ad oggi, ci sono circa 3000 pazienti inseriti in strutture e alloggi perché il fabbisogno dev’essere inferiore? Si è ecceduto nell’uso di tali strumenti? È vero che ci sono gli “extra regione”: pazienti che da altre regioni, carenti di strutture, vengono inseriti in piemonte e in alcune sono definiti nel piano di rientro “in quantità considerevole soprattutto in alcune strutture residenziali” e questo potrebbe essere un primo fronte su cui intervenire (magari rivedendo il fabbisogno regionale).

E come mai nella proposta di delibera a firma Cavallera le cpb tutte vengono riconvertite in srp2? “Le strutture residenziali “Comunità Protette di tipo B”, ad oggi già autorizzate ed accreditate (56 strutture per 1067 posti letto) verranno ricondotte nelle SRP 2 di tipo A con apposito atto di Giunta.” Questo significa che i 1067 posti presenti in strutture vengono garantiti e, allora, l’eventuale taglio di posti letto verrà prevalentemente attuato nella così detta “residenzialità leggera” (appartamenti e alloggi)? Non sono invece troppe le CPB (o SRP 2 tipo A)?

In questo scenario di ristrettezze economiche si rischia una contrapposizione (e anche conflitto) tra residenzialità di tipo strutturale (Comunità protette e Comunità alloggio) e residenzialità “leggera” che porterebbe a una sconfitta per i pazienti, in ogni caso. Se sia preferibile una comunità (magari dislocata in periferia, in collina) o un appartamento (magari in centro paese) credo che non sia possibile definirlo a priori, credo che solo le caratteristiche (necessità, limiti, potenzialità, compromissione, rete familiare e sociale..) del singolo paziente possano suggerire quale posto in un determinato periodo sia più adeguato e questa operazione, con tutte le approssimazioni delle nostre conoscenze, può essere svolta solo dai curanti in unione con i familiari e con il singolo paziente ovviamente.

Lo spostamento nel comparto sociale di ciò che fino ad oggi è stato sanità pare un movimento che finge di risparmiare (è come se in una famiglia sia la moglie a pagare le bollette invece del marito, nel totale non cambia la spesa); tagliare nell’ambito psichiatria significa tagliare risorse agli enti gestori, cioè agli operatori, cioè agli utenti. “Razionalizzare” la spesa può portare al rischio di privilegiare i contenitori più grandi (CPB) – che riescono ad abbattere i costi perché hanno numeri più importanti – a sfavore di quelli più piccoli: ma questa operazione è deleteria per i pazienti (immaginare che vengano spostati pazienti da alloggi qua e là disseminati nel territorio a strutture periferiche è spiacevole, oltre al fatto che l’obiettivo degli interventi è l’inclusione sociale, non l’esclusione).

Alcune possibilità (e proposte) rispetto al riordino della residenzialità: istituire un tavolo in cui regione e DSM decidano: 1) la Regione insieme ai DSM effettui una mappatura del proprio territorio, sia in termini di fabbisogno (utenti attualmente inseriti in strutture) sia in termini di strutture attualmente operative 2) saturare le strutture del proprio territorio con i pazienti del DSM territoriale 3) a partire da un budget condiviso con la Regione definire gli interventi possibili insieme agli enti gestori. Il DSM appare il più idoneo (conosce i pazienti, il territorio con le sue risorse, le strutture e gli enti gestori) a trovare la soluzione più accettabile, magari non la migliore, ma quella più vicina ai bisogni degli utenti. Questo processo va effettuato con la regione che, dovendo erogare finanziamenti, deve monitorare le scelte e conoscere i ragionamenti: è il difficile ma necessario dialogo tra portafoglio e clinica, tra ciò che bisognerebbe fare e ciò che si può fare.

 

L’accreditamento parte dall’assunto che i luoghi in cui avvengono interventi socio sanitari devono essere riconosciuti, autorizzati e, appunto, accreditati. E l’accreditamento prevede il rispetto di requisiti strutturali e organizzativi (personale) specifici.

Per quanto riguarda i requisiti strutturali si evidenzia un rischio per gli appartamenti e gli alloggi: che vengano richiesti adeguamenti inutili e non sostenibili. Inutili perché l’utenza psichiatrica nella stragrande maggioranza dei casi non ha bisogno di ascensori, bagni per disabili o tot metri quadri in più di quanto ne ha bisogno una persona senza problematiche psichiatriche. Impossibile perché certi adeguamenti strutturali non sono realizzabili in alloggi situati nei centri storici e poi perché gli enti gestori generalmente non possono assumersi un tale onere. È particolare come per l’utenza psichiatrica si intenda andare verso un modello sanitario non solo lontano dai bisogni dell’utenza ma altresì dannoso. Mentre il modello sanitario e quindi i rigidi e sacrosanti requisiti strutturali ben si adattano per esempio ad una sala operatoria, ad una grande struttura per anziani, ad uno studio dentistico ecc.. cosa c’entrano con una casa in cui vivono, per esempio, 3 pazienti ? nel momento in cui tale casa è una civile abitazione è sufficiente! Con l’accreditamento, invece, si tende a trasformare una semplice casa in un presidio sanitario (non solo non migliora l’efficacia dei progetti di intervento ma addirittura diventa una possibile stigmatizzazione per i pazienti).

Rispetto all’accreditamento strutturale, la Regione Piemonte ha già definito dei criteri sia per la residenzialità rivolta ai minori e sia per la residenzialità destinata alle patologie della dipendenza. In entrambi i settori, paragonabili alla psichiatria rispetto alle esigenze dei pazienti nelle abitazioni, si richiede che vengano rispettati i criteri della “civile abitazione”.

Come nel caso dei minori “Per ciò che riguarda l’accessibilità delle parti comuni, essendo le strutture per minori considerate principalmente come unità immobiliari residenziali, qualora gli stessi non abbiano più di tre livelli fuori terra è consentita la deroga all’installazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, ivi compresi i servoscala, purché sia assicurata la possibilità della loro installazione in un tempo successivo. L’ascensore va comunque installato in tutti i casi in cui l’accesso alla più alta unità immobiliare è posto oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali livelli interrati e/o porticati, e in ogni caso, qualora la struttura accolga utenti con disabilità motoria.

Insomma, se un alloggio è sano e agibile (“affittabile”), regolarmente iscritto al catasto, con impianti a norma e qualche accorgimento in più (questo sì accreditabile, per esempio rilevatori anti fumo, piastre elettriche per la cucina o altro), ha le carte in regola per “ricevere” un intervento rivolto all’utenza psichiatrica. Peraltro è proprio questo lo spirito con cui son nati tali alloggi (che siano inseriti in contesti urbani, per facilitare l’inclusione quindi meglio se in condomini normali in cui poter conoscere anche gli altri vicini).

I requisiti del personale: l’accreditamento se applicato rigidamente obbliga gli enti gestori a fornire tot minuti di una determinata professionalità per ogni utente al dì: la nostra esperienza ci dimostra che per attuare un intervento efficace ed efficiente è necessario usare la flessibilità responsabile anche rispetto agli interventi psicologici, educativi e assistenziali (a volte il paziente richiede di più, a volte di meno e pensare di offrire sempre lo stesso tipo di intervento appare non solo inutile ma anche dannoso sia economicamente che dal punto di vista riabilitativo).

In linea generale riteniamo che siano i DSM territoriali a dover costruire nel territorio e nelle realtà residenziali interventi calibrati non solo sui pazienti di questo o quell’alloggio ma anche calibrati su un determinato territorio che ha una storia che contiene risorse utili ai pazienti.

Nello specifico le figure sanitarie e sociosanitarie si devono integrare nel mix di cui sopra (interconnessione tra necessità terapeutico riabilitative e assistenziali) con flessibilità e unicità (rispetto ai bisogni unici del singolo paziente o del gruppo).

Figure sanitarie:

  • medico psichiatra
  • psicologo iscritto all’albo
  • infermiere
  • tecnico della riabilitazione psichiatrica
  • educatore professionale interfacoltà
  • s.s.

Figure socio-sanitarie:

–        dottore in psicologia;

–        educatore professionale (con laurea triennale in scienza dell’educazione, o corso di riqualificazione ai sensi della DGR 258 – 45349 del 12/05/1995 o, fino e non oltre alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, titolo conseguito successivamente alla attivazione delle lauree triennali presso scuole autorizzate dalla Regione Piemonte);

–        dottore in scienze e tecniche psicologiche (laurea triennale).

Partendo da queste figure, dalle necessità dei pazienti e dalle risorse del territorio il DSM “compone” l’equipe più consono a rispondere al servizio; in alternativa si possono identificare delle percentuali all’interno delle quali DSM ed ente gestore può “muoversi”, garantendo la prevalenza di sanitario rispetto al sociale o viceversa.

MODELLO LOMBARDO, O SI CAMBIA VERSO? IN PIEMONTE GLI APPARTAMENTI SONO LEA!

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata negli anni scorsi dalla Regione Piemonte, e che confidiamo verrà superata dall’attuale Giunta, è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In effetti la DCR 357 definiva i gruppi appartamento come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”; fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti sempre di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi è andato in una direzione molto diversa: la DCR 357 non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una piccola percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008 (che qualche “tecnico d’area” della giunta Cota avrebbe voluto limitarsi a “fotocopiare”) sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture a intermedia o addirittura a elevata intensità riabilitativa (SRP2 o SRP1) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

Contributi 1

Riceviamo e pubblichiamo integralmente il contributo accorato di un infermiere che lavora da anni in psichiatria.

I concetti espressi con forza al limite dell’esistenzialismo ci paiono degni di nota e mai troppo ripetuti.

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Nell’anno 1978 la legge Basaglia chiuse in Italia l’esperienza del manicomio come strumento di “cura” della sofferenza psichica; la legge fu varata al culmine di fortissime spinte politiche e sociali, che in quegli anni stavano cercando di ridisegnare i rapporti del vivere civile, in senso partecipativo e popolare. Proprio per questo motivo, la legge Basaglia contiene in sé l’istanza del rifiuto della segregazione e dell’esclusione sociale, che stavano sostanzialmente alla base del costrutto, fisico ma soprattutto concettuale, del manicomio. L’uscita da questo cortocircuito ha determinato, negli anni a venire, una restituzione della sofferenza psichica alla vita sociale: cioè la resa dei conti con chi aveva contribuito alla creazione di questo malessere, per poi pretendere di non farsene carico. Di questo cortocircuito erano poi di fatto costituite le mura dei manicomi: una separazione artificiosa da quella che è evidentemente un’idea scomoda, cioè quella di essere responsabili. Della genesi innanzitutto, e della gestione, in seconda battuta, della sofferenza psichica. Non a caso la legge che istituì il manicomio, nell’anno 1904, parlava di “pubblico scandalo”, consentendo di fatto di togliere dalla strada, da casa,dalla piazza, persone il cui comportamento poteva suscitare noia, ilarità o più probabilmente disprezzo, nella maggioranza della popolazione. Senza tenere in conto che sovente quel genere di comportamento era legato ad una sofferenza profonda, e piena di significati, che un reale progetto di cura avrebbe dovuto tenere principalmente in considerazione. Perché di questo si tratta: la sofferenza mentale è molto spesso, quasi sempre, legata alla costruzione ed alla dinamica dei rapporti interpersonali. E’ probabilmente la malattia più sociale di cui soffriamo. L’istituzione manicomiale aveva di fatto permesso alla nostra società di operare una netta separazione tra chi era ritenuto psichicamente sano e che invece era stato catalogato, spesso in modo completamente arbitrario, come malato. La costruzione di muri di cinta, l’esclusione dalla vita sociale e la ghettizzazione erano il risultato operativo di questa forma di pensiero. La legge Basaglia ha ribaltato la questione, restituendo al nostro vivere insieme questa responsabilità. Una delle possibilità umane eticamente più elevate, ma senza dubbio più difficili: la responsabilità della condivisione.

Generalmente noi tutti siamo portati a fuggire istintivamente il dolore, scegliendo in modo difensivo e superficiale le strade che più ci allontanano da esso. Atteggiamento più che comprensibile, ma che non può portarci molto lontano, perché presto o tardi saremo noi ad avere bisogno di condividere il nostro dolore con gli altri; chiunque sia già passato per questa strada potrà sottoscrivere questo pensiero. Condividere non significa risolvere il problema della sofferenza, quanto piuttosto “attraversarla con”.

Ci sono delle immagini che ritengo significative della parola ATTRAVERSARE, nel senso interiore del termine. In particolare, penso ai passi di una persona che cammina in una landa desolata di un deserto. Il calore che brucia sotto la pianta dei piedi, il caldo che le taglia il fiato e tutto intorno una distesa di sabbia sempre uguale, il panorama dell’impossibilità. IMPOSSIBILITA’: uso questa parola monumentale per dire che ogni uragano di vivere sposta i granelli di sabbia, trascinandoli nell’aria sotto forma di mulinelli, e li deposita in modo completamente diverso su se stessi, ridisegnando in pochi istanti l’intera sagoma del deserto. Soltanto che noi non siamo in grado di accorgercene, perché le dune si somigliano troppo per poterle distinguere. Quest’impossibilità ha molto spesso a che fare con il dolore, quasi sempre con il dolore degli altri. Questo dovrebbe bastare a farci capire la difficoltà estrema nel ridistinguere le dune dei nostri percorsi interiori, e di fronte a quale deserto si trovi chiunque debba relazionarsi con il dolore degli altri.

La sofferenza profonda è sovente poco comprensibile, e comunque mai del tutto; perché noi siamo troppo piccoli per poter comprendere l’altro fino in fondo. Uno dei problemi da affrontare è legato a questo genere di frustrazione, che a volte ci scoraggia nell’avvicinare una persona con una sofferenza psichica. Occorre tenere presente sempre che la condivisione di fatto non è che un tentativo. E che quindi è soprattutto fatta di errori ,di cose che pensavamo di aver capito e invece avevamo completamente frainteso. La domanda che ci si potrebbe porre è per quale motivo noi dovremmo farci carico di tentare di gestire questa sofferenza scendendo nel buio della profondità: la risposta è quella intuitivamente più semplice, e cioè che questo dolore ci appartiene anche come nostra eventualità personale. E’ nell’appartenenza stessa di questo dolore, che vive per intero e per noi tutti la possibilità di provare a comprendere, tenendo presenti tutti i limiti strutturali a nostro carico. Perché quella della condivisione è anche una responsabilità che abbiamo verso noi stessi, se vogliamo che un giorno qualcuno possa cercare di attraversare il deserto della nostra sofferenza.

E’ questa, la pietra: pur di non arrivare all’attraversamento, pur di tagliare corto per non doverci occupare di cose così impegnative, abbiamo costruito le mura del manicomio, creato l’istituzione carceraria, separato i buoni dai cattivi, i sani dai malati, i ricchi dai poveri. Edificando in questo modo le cattedrali del nostro nulla, e delle nostre belle parole, indossando camici bianchi, appendendo certificati di laurea in bella mostra sulla parete del soggiorno. Pur di tenere lontano la sofferenza, perché non ci riguardasse, abbiamo partorito l’aberrazione chiamata “senno di poi”. Il senno, cioè la saggezza; una parola che sembra esistere unicamente per parlare di un dopo, come se la saggezza fosse patrimonio soltanto delle cose conosciute; come se solo e unicamente dal finale di una storia, o di una vita, si potesse ricostruirne per intero il significato. Quello che mi sembra di aver capito, invece, è che non esiste una saggezza maggiore che quella del mentre, dell’attraversare. L’atto di attraversare, del camminare attraverso il deserto, nostro e degli altri, contiene in sé un patto di accettazione della nostra clamorosa piccolezza. Cioè l’arma potenzialmente più rivoluzionaria che ogni essere umano possiede,quasi sempre senza saperlo. Ammettere di non conoscere, ammettere di non aver capito, ammettere di non sapere che cosa fare, o che cosa dire di fronte al dolore, nostro ed altrui: procedere per ipotesi, e per errori, nella condivisione della sofferenza, significa esattamente attraversarla. Si può “attraversare con” anche senza dire una parola. Questo per dire dell’importanza di una presenza fisica, della profondità del silenzio e del rispetto che si deve a chi sta lottando con le ombre dei propri pensieri. Smettere di credere l’inverosimile, e cioè che tutto questo non ci riguardi direttamente, equivale a riconoscere il dolore come espressione della fragilità umana. Perché ciò che socialmente pensiamo di fare nei confronti dei più deboli equivale a ciò che pensiamo di fare di noi stessi.

L’attraversamento è forse, per le cose che mi pare di avere compreso, una delle esperienze umane più sfaccettate, più complesse. Ci si dice mille volte quanto sia intollerabile il dolore che abbiamo tra le mani, piuttosto che quanto sia irraggiungibile la sofferenza dell’altro. Che poi sono altri modi per allontanare da noi l’idea che quella sofferenza possa essere compresa, anche se solo in parte, e quindi attraversata.

E’ questa, la sabbia del deserto: venire a patti col pensiero della non ragionevolezza del dolore, della malattia. Nonché con un quadro un po’ più onesto di quali siano i nostri limiti. Perché la malattia umana ci appartiene indistintamente. Il peso specifico di quest’idea è la sola alternativa al senno di poi, allo stucchevole riavvolgimento del nastro con le foto in bianco e nero degli scheletri di Auschwitz, piuttosto che dei materassi pieni di feci e urina trovati dentro ai manicomi; tutte cose che fecero gridare allo scandalo, indignando la cosiddetta “società civile”, la benpensante società civile, cioè noi tutti. Gli unici responsabili di quell’ignominia. Invece di gridare allo scandalo, riavvolgendo il canovaccio, dovremmo forse fare tesoro della nostra fragilità, e perdonarci per questo. Costruendo, per noi stessi e per gli altri, il miracolo del conforto.

Chi di noi ha indagato la questione più da vicino, converrà che il dolore è probabilmente inscindibile dalla stessa esperienza di vivere, e come tale non soltanto può, ma deve essere attraversato. Perché per un sogno andato in pezzi ce ne saranno altri, da mandare in frantumi: non c’è un altro modo per generare nuove strade, nuovi percorsi. E’ l’eredità lasciataci dall’attraversamento: che il cumulo di vetri rotti alle nostre spalle possa alla fine strapparci anche un sorriso, che è la memoria del nostro essere vivi, e soffrirne di conseguenza.

Alla storia del genere umano appartengono poi tristemente anche i tifosi della superiorità della razza, i sostenitori della guerra come igiene del mondo e gli ultrà della pena di morte: a noi il compito di sbarrare loro la strada. La legge Basaglia e la psichiatria territoriale ci raccontano anche questo: per ogni barriera che abbiamo costruito coi mattoni della nostra paura, ci sarà un deserto da attraversare, senza dimenticarci mai che non c’è un dolore più forte di quello che cerchiamo di tenere lontano, perché niente in noi potrà più nascere, né morire.

Pensare oggi di mantenere vivi i servizi territoriali, il loro patrimonio di operatori, e di esperienza, significa scegliere di investire per un futuro differente dal nostro vergognoso passato.

Per quanto imponenti siano in termini di impegno, sacrificio e dedizione, esistono cose possono abbattere qualunque muro, spazzare via qualsiasi letto d’ospedale, qualsiasi gabbia, manicomio o galera: la vicinanza al dolore ,è una di queste.

 

Escludere dai LEA la riabilitazione psichiatrica? Ecco perché è un’idea anti-scientifica e anti-economica

 LA VECCHIA AMMINISTRAZIONE REGIONALE PIEMONTESE HA ESCLUSO DAI LEA (i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni cui tutti i cittadini hanno diritto gratuitamente) i principali capisaldi della riabilitazione psichiatrica: borse lavoro, assegni terapeutici e  residenzialità leggera, tra cui, in primo luogo, i gruppi appartamento.

La motivazione addotta è di tipo economico e la responsabilità della scelta viene indebitamente attribuita al governo nazionale. In una Deliberazione del 21 maggio 2014, 4 giorni prima delle elezioni, la Giunta Cota scrive:

Nell’ambito della verifica dell’attuazione del Piano di rientro della spesa sanitaria, il tavolo nazionale di verifica e monitoraggio dei LEA ha richiesto alla Regione Piemonte  il riallineamento delle quote di compartecipazione alla spesa da parte del servizio sanitario regionale, prevedendo che le Asl, a decorrere dal gennaio 2014, non possano più scrivere nei loro bilanci risorse per prestazioni aggiuntive oltre i Lea previsti a livello nazionale”.

E specifica: “Tra queste prestazioni aggiuntive, particolare rilievo assumono  quelle relative agli assegni terapeutici per pazienti psichiatrici alternativi al ricovero in struttura, alle borse lavoro per pazienti psichiatrici, alla copertura della quota sociale per i gruppi appartamento psichiatrici”. (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/25/attach/dgr_07629_070_21052014.pdf)

La normativa nazionale a cui si fa riferimento è il D.P.C.M 14/02/2001, Allegato 1, punto 1.c, dove si parla di “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali è stata prevista una percentuale di costo  non attribuibile alle risorse finanziarie  destinate al S.S.N.”

(http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

E’ davvero difficile comprendere come la delibera regionale abbia potuto ritenere applicabile questa definizione agli assegni terapeutici, alle borse lavoro (cioè ai tirocini a valenza terapeutico riabilitativa) e ai gruppi appartamento psichiatrici (la cosiddetta “residenzialità leggera”)

Si tratta, infatti, di prestazioni che hanno una chiara e inequivoca natura terapeutico-riabilitativa; forse, in assoluto, le più coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica, così come è oggi definita a livello internazionale. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf) Non è sostenibile che, in esse, la componente sanitaria e quella sociale non siano distinguibili. 

Perché sia da considerarsi sanitario, un intervento deve possedere alcuni requisiti e la riabilitazione psichiatrica li possiede tutti. In primo luogo, serve a migliorare gravi problemi di salute. In secondo luogo si avvale di tecniche validate, che richiedono una competenza professionale specifica, e hanno un’efficacia comprovata con metodo scientifico, e riconosciuta da milioni di utenti e familiari che ne usufruiscono da decenni in tante parti del mondo. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf)

Sociali sono gli ambiti di applicazione dei risultati (vivere in autonomia, lavorare, formarsi una famiglia, ecc.) e psicosociali sono gli strumenti operativi, ma non certo il processo in sé.

I disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone; la compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui migliorare il funzionamento e l’inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario.

Inoltre, è noto che il ricorso ampio e strutturato a programmi riabilitativi territoriali, come quelli di domiciliarità e di residenzialità leggera, è la strategia più efficace per ridurre i principali capitoli di  spesa dei dipartimenti di salute mentale: i ricoveri in ospedale e casa di cura e, soprattutto, le strutture residenziali “pesanti”.

L’applicazione della delibera del 21 maggio scorso avrebbe dunque conseguenze disastrose dal punto di vista clinico, e sortirebbe l’effetto opposto a quello ipotizzato, dal punto di vista economico.

Cercheremo di argomentare nel modo più preciso possibile ognuna di queste affermazioni.

CHE COSA, IN SALUTE MENTALE, SI PUO’ CONSIDERARE TERAPEUTICO-RIABILITATIVO, dunque integralmente sanitario?

La risposta va cercata nella letteratura scientifica internazionale e non certo nelle normative o nelle delibere regionali. D’altra nessuna normativa nazionale si è mai sognata di contraddire i principi della letteratura, né di escludere la riabilitazione psichiatrica dai livelli essenziali di assistenza.

Lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M. 2001 chiamato in causa, include fra le prestazioni a carico totale del Servizio sanitario nazionale, a pagina 33: “le prestazioni ambulatoriali, riabilitative e socio-riabilitative presso il domicilio”; a pagina 35: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime semiresidenziale”; a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

Tuttavia, nella stessa pagina 38 del D.P.C.M. appare il paragrafo che è stato utilizzato dalla vecchia Giunta, con un‘interpretazione a nostro avviso fuorviante, per giustificare il declassamento ad extra-LEA.  In esso si prevede una compartecipazione del 60% da parte dell’utente o del Comune per “accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale e programmi di inserimento sociale e lavorativo”. Consideriamo ciascuno di questi punti, cominciando dall’ultimo:

  • 1. programmi di inserimento lavorativo. L’equivoco riguarda la differenza fra diritto all’accesso al mondo del lavoro per le persone svantaggiate (obiettivo chiaramente sociale) e interventi riabilitativi sulle abilità lavorative (obiettivo chiaramente sanitario).

Le cosiddette borse lavoro, meglio definite come tirocini lavorativi a carattere terapeutico-riabilitativo, rientrano senza il minimo dubbio nella seconda categoria. Non hanno l’obiettivo di garantire al paziente un posto di lavoro, né un reddito minimo, bensì di agire sulle difficoltà di funzionamento relazionale, correlate alla patologia, rilevanti ai fini della sua capacità di trovare e mantenere un’occupazione. Essendo la disfunzione relazionale in ambito lavorativo conseguenza diretta della patologia, l’intervento correttivo sulla disfunzione ha natura esclusivamente sanitaria.

Il fatto che il lavoro riguardi la dimensione sociale dell’individuo non rende la riabilitazione lavorativa un fenomeno sociale, così come la rilevanza sociale della deambulazione non declassa a fenomeno sociale la riabilitazione motoria. L’effettivo reperimento di un posto di lavoro non è l’obiettivo dei tirocini riabilitativi; semmai può essere considerato un indicatore di esito della loro efficacia, e come tale viene utilizzato nella ricerca scientifica internazionale http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2800143/

Anche il fatto che, in alcune situazioni, le borse lavoro si protraggano per anni, non toglie nulla alla loro natura riabilitativa. Molte altre tecniche psichiatriche vengono utilizzate in modo continuativo per anni, come ad esempio i gruppi riabilitativi in contesti semiresidenziali e residenziali; lo stesso avviene per patologie croniche non psichiatriche, come ad esempio quelle neurologiche degenerative, che richiedono interventi riabilitativi protratti nel tempo per mantenere la abilità acquisite.

Utilizzando la classificazione del D.P.C.M. del 2001 che norma i LEA, le borse lavoro non dovrebbero essere inserite fra i programmi di inserimento lavorativo (che pure esistono e talvolta i Csm gestiscono, in collaborazione con altri enti, come i centri per l’impiego e i comuni) bensì fra gli interventi riabilitativi; in particolare quelli previsti a domicilio, visto che la dicitura non può essere intesa come il domicilio fisico, ma riferita ai pazienti che vivono a domicilio, e dunque intesa come sinonimo di intervento territoriale; oppure in contesto semiresidenziale.

  • 2. programmi d’inserimento sociale Il DPCM del 2001 non si dilunga a spiegare di che cosa si tratti. La vecchia Giunta del Piemonte sembra intenderli come sinonimo di progetti sostenuti da assegni terapeutici (termine che nel documento nazionale sui LEA non viene mai citato).

Si tratta di un altro grave fraintendimento. Anche se spesso, nel linguaggio comune dei servizi, vengono definiti “sussidi”, gli assegni terapeutici non hanno affatto una natura sociale; non servono a garantire l’inserimento sociale attraverso il sostegno al reddito.

Il termine stesso ne delimita il profilo, che è rivolto a realizzare obiettivi terapeutico-riabilitativi sul territorio, in situazioni in cui non è possibile, o non è utile, un intervento economico di tipo sociale o assistenziale.

Ad esempio, è terapeutico l’assegno che serve ad acquistare un abbonamento dell’autobus o del treno, per un paziente che deve partecipare a un programma riabilitativo mirato all’uso dei mezzi di trasporto pubblico, se il paziente non ha diritto a conseguire, o non è clinicamente utile che consegua al momento, diversi supporti sociali (come ad esempio una percentuale d’invalidità che gli consentirebbe la libera circolazione sui mezzi).

Ma, spesso, il più importante uso degli assegni terapeutici da parte dei Centri di salute mentale è quello di sostegno ai cosiddetti progetti di domiciliarità.

Non si tratta di interventi volti a garantire il diritto all’abitare (obiettivo di tipo sociale, che spetta ai Comuni e all’Agenzia Territoriale della Casa) ma di programmi terapeutico-riabilitativi, che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Csm.

L’obiettivo è profondamente coerente con i principi della riabilitazione psichiatrica: fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009) http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf

Vivere, e curarsi, a domicilio (sia che si tratti del proprio, o di un’abitazione conseguita con il supporto anche economico del servizio) ha il significato di un addestramento e di un percorso di crescita; sfruttare un contesto privilegiato per sviluppare le risorse emotive e interpersonali che la patologia indebolisce, e che vengono stimolate in modo molto più efficace in un contesto di normale abitazione, piuttosto che in un’istituzione sanitaria.

La domiciliarità è una tecnica riabilitativa insostituibile, rivolta a persone con patologie gravi e persistenti, la cui rilevanza sanitaria è lampante e niente affatto indistinguibile dagli interventi sociali.

Storicamente, nella realtà dei servizi piemontesi si è sviluppata nella cornice istituzionale dei cosiddetti progetti individuali territoriali (anch’essi oggetto di bruschi tentativi di ridimensionamento da parte della vecchia amministrazione regionale nel 2013), per acquisire, col tempo, un’identità propria.

Ha molti punti in comune, dal punto di vista teorico e organizzativo, con modelli riabilitativi accreditati a livello internazionale, come l’Assertive Community Treatment (ATC) http://store.samhsa.gov/shin/content//SMA08-4345/BuildingYourProgram-ACT.pdf

  • 3. accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale. Questa definizione viene intesa dalla delibera della Giunta Cota come applicabile a tutti i gruppi appartamento. Nelle bozze di delibere, mai approvate, sulla regolamentazione delle residenzialità leggera, era estesa anche alle comunità alloggio e quindi a tutte le strutture diverse dalle comunità protette di tipo A e B.

Riservare alle sole strutture residenziali “pesanti” un puro carattere sanitario equivale al considerarle gli unici strumenti con un pieno potenziale terapeutico riabilitativo. In più, il fatto che rimangano le uniche strutture per cui è garantita l’assoluta gratuità per i pazienti, le loro famiglie e per i servizi sociali, porterebbe inevitabilmente a incrementarne l’utilizzo, molto al di là di quanto sia necessario dal punto di vista clinico, per pure ragioni economiche.

La vecchia normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica, D.C.R. 357 del 1997, stabiliva una correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa e caratteristiche strutturali; prevedeva, per le comunità protette di tipo A e B, cui era affidato il compito teorico di assicurare gli interventi più intensivi, requisiti abitativi analoghi a quelli di strutture sanitarie simil-ospedaliere, per quanto riguarda metratura, impianti sanitari, accessibilità. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

Tali requisiti sono realizzabili solo in ambiti abitativi ampi, in grado di ospitare un numero consistente di pazienti: almeno venti, con la possibilità di affiancare più unità da venti posti nello stesso comprensorio. Strutture di questo tipo difficilmente trovano collocazione in ambito urbano, sono molto costose da acquisire e da gestire, per cui non possono sostenersi con un numero di pazienti inferiore a quello massimo previsto (non risulta che operino in Piemonte CPA o CPB con un numero di posti inferiore a 20, nonostante la normativa di per sé non lo vieti).

La residenzialità psichiatrica piemontese, nella sua evoluzione concreta, è andata oltre a questo limite, approfittando della flessibilità concessa dalla stessa DCR 357, che non prevedeva standard di personale rigidi per le strutture “leggere”, come i gruppi appartamento e le comunità alloggio.

Hanno potuto nascere strutture di dimensioni assai più ridotte ( da 5 o 6 fino a 10-12 ospiti), con caratteristiche di civile abitazione, non simili a istituzioni sanitarie tradizionali, collocate più facilmente nei centri urbani, ma con dotazioni di personale e organizzazione tali da garantire interventi ad elevata o intermedia intensità riabilitativa, potendo porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, a CPA e CPB.

E’ stato così dimostrato che le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di “terapeuticità” delle strutture leggere, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali; il secondo è il numero più ridotto di utenti che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo.

Le strutture leggere organizzate con questa logica non hanno nulla a che fare con l”accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale”: sono vere strutture riabilitative.

Non è dunque accettabile alcun automatismo, come quello che proponeva sulla carta (per poi contraddirlo nei fatti), la DCR 357; la leggerezza strutturale non significa, in automatico, leggerezza funzionale. 

L’esclusione, ex lege, dai LEA dovrebbe riguardare solo quelle strutture, pur esistenti, che hanno davvero una connotazione assistenziale a bassa soglia, e non tutte le strutture finora classificate come gruppi appartamento o comunità alloggio.

Mantenere all’interno delle prestazioni essenziali le strutture leggere a connotazione terapeutico riabilitativa, naturalmente, non impedirebbe di prevedere modalità personalizzate di contribuzione economica da parte degli utenti, come già ora avviene in molto situazioni, all’interno dei progetti terapeutici individuali.

QUAL E’ L’IMPATTO ECONOMICO DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA?

I progetti di riabilitazione territoriale che la delibera della vecchia Giunta regionale ha escluso dai LEA, quando organizzati in maniera efficiente, hanno l’effetto di ridurre la spesa complessiva dei Dipartimenti di salute mentale. In particolare, la residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002 http://bjp.rcpsych.org/content/181/3/220.long) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti.

Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23712514), su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione.

Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Negli ultimi anni, molti servizi, sviluppando in maniera strutturata reti di residenzialità leggera e progetti integrati di domiciliarità, sono riusciti a ridurre la spesa residenziale complessiva; sia agendo in senso preventivo, per evitare nuovi inserimenti, sia rendendo possibili dimissioni da strutture a costo elevato.

Sarebbe auspicabile che questi dati venissero resi noti il prima possibile agli Amministratori regionali e a tutti gli utenti e operatori della salute mentale.

Le prestazioni a rischio di ridimensionamento con l’esclusione dai LEA  (borse lavoro, progetti di domiciliarità, residenzialità leggera) sono  strumenti di comprovata efficacia dal punto di vista clinico ed economico. Proseguire nella direzione della Delibera del 21 maggio 2014, comporterebbe un grave peggioramento della qualità dei servizi riabilitativi psichiatrici nella Regione Piemonte e  avrebbe conseguenze economiche opposte a quelle dichiarate, perché comporterebbe un netto aumento della spesa, a vantaggio di progetti residenziali ad elevata protezione e costo.

Riabilitazione e Recovery

Negli ultimi anni, soprattutto gli autori anglosassoni hanno dato molta importanza al concetto di recovery inteso non nel senso letterale di guarigione, ma in un senso più complesso, che non ha una traduzione italiana pienamente soddisfacente, per cui si preferisce mantenere il termine originale inglese. Il termine recovery  nasce soprattutto dal contributo delle associazioni di pazienti o ex pazienti: rappresenta la versione dal punto di vista dell’utente degli obiettivi terapeutici e riabilitativi.

Termini come remissione o guarigione sociale si riferiscono alla scomparsa dei sintomi o al raggiungimento di precisi obiettivi riabilitativi (vivere autonomamente, lavorare, ecc.) Per recovery s’intende invece il versante soggettivo; ci si riferisce ai vissuti personali del paziente, ai suoi pensieri e sentimenti, non solo rispetto alla malattia ma alla sua attuale situazione di vita complessiva. S’intende il recupero della sensazione soggettiva di vivere una vita piena, soddisfacente, dotata di senso, con la possibilità di formulare obiettivi personali e autentici e di compiere liberamente delle scelte. (Warner, 2009)

Le definizioni ufficiali più recenti di riabilitazione psichiatrica, dando importanza alla soddisfazione personale del paziente, si sono avvicinate a fare propri i concetti di recovery.  Ad esempio la Uspra precisa che il proprio mandato istituzionale prevede di «Promuovere la recovery, la piena integrazione sociale, e una migliore qualità di vita per tutte le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo mentale, tale da compromettere seriamente la possibilità di condurre una vita piena di significato».

La Riabilitazione in Salute Mentale

La riabilitazione ha come oggetto i pazienti che non guariscono, o guariscono in modo parziale, pur avendo ricevuto le migliori terapie disponibili. Si occupa cioè delle malattie che gli strumenti terapeutici standard non riescono a eliminare del tutto, e dell’impatto a medio-lungo termine che esse determinano sulla vita dei pazienti.

In salute mentale, l’ambito riabilitativo riguarda una dimensione molto ampia e complessa: quella del funzionamento interpersonale e sociale, poiché i disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone. Da tale compromissione derivano le difficoltà a conseguire e mantenere un ruolo sociale, con forti rischi di emarginazione. (Siani, 1991)

In una significativa percentuale dei pazienti affetti da disturbi psichici maggiori (psicosi, disturbi maggiori dell’umore e gravi disturbi di personalità), la mancanza di un’adeguata strategia riabilitativa comporta, con sostanziale certezza, la perdita irreversibile di una normale integrazione sociale e quindi dei diritti di cittadinanza. (Roberts et al., 2006)

Questa categoria di pazienti, che costituisce lo 0,2-0,4% della popolazione generale dei Paesi sviluppati secondo gli studi epidemiologici, ovvero fra 200 e 400 soggetti ogni centomila abitanti (Ruggeri, 2000) un tempo era destinata all’internamento a vita in ospedale psichiatrico, che sanciva l’impossibilità di mantenere un ruolo all’interno del mondo normale, a fianco dei propri familiari, amici, concittadini.

Se la riabilitazione psichiatrica non è disponibile o è praticata in maniera insufficiente, lo stesso destino d’isolamento, o di espulsione verso un mondo a parte, è inevitabile ancora oggi, che i manicomi sono stati chiusi e terapie farmacologiche efficaci sono accessibili in modo quasi generalizzato. Infatti, nei disturbi più gravi, le terapie psichiatriche in senso stretto, e in particolare quelle psicofarmacologiche, pur agendo sui sintomi più evidenti (deliri, allucinazioni, comportamenti stravaganti, idee di suicidio), non eliminano il deficit relazionale, che spesso resta significativo e duraturo. Da qui discende il ruolo centrale delle tecniche riabilitative come complemento indispensabile alle terapie. (Craig, 2006)

La compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui ottenere un migliore funzionamento inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario. Essendo molto ampio il concetto di funzionamento sociale, non stupisce che altrettanto ampi siano i confini di applicazione della riabilitazione psichiatrica, venendo a comprendere ambiti insoliti per altre discipline sanitarie, come il lavoro, le amicizie, il tempo libero, l’espressione artistica. Naturalmente, meritano la definizione di attività riabilitative solo quelle che si basano su una consolidata prassi professionale e, soprattutto, su dimostrazioni di efficacia nella letteratura scientifica internazionale, che è molto estesa.

Secondo uno degli Autori che più hanno contribuito allo sviluppo attuale del concetto, William Anthony dell’Università di Boston, la riabilitazione in psichiatria: «Ha lo scopo di consentire alle persone affette da malattie mentali gravi e persistenti di sviluppare le abilità emotive, sociali e intellettuali necessarie per vivere, studiare e lavorare nell’ambiente sociale di scelta, con il minimo livello possibile di sostegno professionale».  (Anthony, 2002, 2009)

Questa visione è stata ripresa e adottata con alcune modifiche dalla società professionale nordamericana che si occupa di riabilitazione, la United States Psychiatric Rehabilitation Association, che nel 2007 ha coniato la seguente definizione: «La riabilitazione psichiatrica è finalizzata ad aiutare gli utenti a sviluppare le abilità e ad accedere alle risorse di cui hanno bisogno per migliorare la loro possibilità di avere successo e di essere soddisfatti negli ambienti di vita, lavoro, studio e nei contesti sociali di loro scelta». (USPRA, 2007)

Con solo alcune sfumate differenze, i punti fondamentali qui sottolineati sono: integrazione sociale, anziché permanenza dei pazienti “fuori dal mondo” in un mondo a parte; scelta dei luoghi di vita e di cura; soddisfazione personale.

Sono tre principi che contraddicono in maniera radicale il modello dell’istituzionalizzazione dei malati di mente (Goffman, 1961; Basaglia, 1968)), che ha dominato in tutto il mondo fino agli anni 60 e 70 del 900, e che è tuttora utilizzato, spesso in maniera non dichiarata o addirittura non consapevole, anche nei paesi avanzati, compresa l’Italia, e che si basa sull’esatto contrario: isolamento sociale, assenza di possibilità di scelta e di soddisfazione dei bisogni individuali.

Una piena inclusione sociale della persona, per essere tale, deve riguardare diversi ambiti di vita: consumo (capacità di acquistare beni e servizi); produzione (partecipazione ad attività economiche e socialmente riconosciute); partecipazione politica (coinvolgimento in processi decisionali locali o nazionali); interazione sociale (integrazione con la famiglia, gli amici, il territorio).  (CASE; London School of Economics, 2002)

La principale specificità della riabilitazione in salute mentale, è che gli obiettivi non sono stabiliti a priori, in base a protocolli generali e predefiniti, bensì devono essere concordati e negoziati caso per caso, e non solo fra paziente e terapeuta. Spesso i protagonisti della negoziazione sono più di due, perché giocano un ruolo importante la famiglia, i vicini di casa, i datori di lavoro, le forze dell’ordine. (Antony, Farkas, 2009)

Naturalmente è impossibile parlare in astratto del funzionamento socio-relazionale e dell’integrazione sociale di un paziente, senza considerare gli ostacoli o viceversa i fattori facilitanti che provengono dal contesto sociale, quale che sia il problema di salute. Il ruolo cruciale dei fattori contestuali per ogni condizione sanitaria, in correlazione stretta con le dirette conseguenze della malattia, è stato enfatizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la pubblicazione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), nel 2001.

 

Bibliografia

  • Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Warner, Richard. Recovery from schizophrenia and the recovery model. Current Opinion in Psychiatry, luglio 2009
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of rehabilitation psychiatry. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • Craig, Tom, in Roberts, Glenn et al. Enabling recovery, citato
  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  • Anthony, W. et al. . “Psychiatric Rehabilitation.” Boston, MA: Center for Psychiatric Rehabilitation, Sargent College of Health and Rehabilitation Sciences. Boston, MA: Boston University. 2002
  • Anthony, William. Psychiatric rehabilitation: a key to prevention. Psychiatric Services, gen 2009
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, uspra.org
  • The Centre for the Analysis of Social Exclusion at the London School of Economics, 2002
  • Basaglia, Franco. L’istituzione negata. Einaudi, 1968
  • Goffman, Erving. Asylums (1961) trad it 1968, Einaudi
  • Warner, Richard e Leff, Julian; Social inclusion of people with mental illness, Cambridge University Press, 2006
  • Antony, William e Farkas Marianne; A primer on psychiatric rehabilitation process. 2009 http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf
  • WHO http://www.who.int/classifications/icf/en/

 

Riabilitazione Lavorativa

Numerosi studi internazionali dimostrano che solo una ristretta minoranza (tra il 10 e il 20% secondo studi recenti: Cook et al. 2005) dei pazienti affetti da malattie mentali gravi riesce a mantenere un’attività lavorativa competitiva e quindi un’autonomia economica (ingrediente fondamentale del diritto di cittadinanza).

D’altra parte è dimostrato che tra i fattori predittivi principali della possibilità di trovare e mantenere un posto di lavoro per i pazienti gravi c’è l’aver partecipato a programmi riabilitativi specifici (Tsang et al. 2010)

La riabilitazione lavorativa consiste sia nel supporto alla ricerca di impieghi sul mercato competitivo, con o senza il tramite delle liste speciali per il collocamento delle persone con riconoscimento di invalidità lavorativa; sia l’attivazione di tirocini a valenza terapeutico riabilitativa.

Questi ultimi, sono oggetto di un tentativo di ridimensionamento a livello regionale piemontese, attraverso l’esclusione dalle prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza (lea). Eppure l’ancora vigente legge regionale 357 ne sancisce in maniera inequivoca il carattere terapeutico-riabilitativo e, quindi, la natura esclusivamente sanitaria.

L’esperienza concreta di anni, e il conforto della letteratura scientifica dimostrano che, sia gli inserimenti lavorativi (Individual Supported Placement secondo il più accreditato modello internazionale: Becker et al, 2011) sia i tirocini a valenza riabilitativa (borse lavoro, nel sistema piemontese) purché adottati all’interno di una strategia di intervento complessiva, sono parte integrante di quei “percorsi di presa in carico e cura esigibili” di cui parla senza ambiguità il Piano di Azioni Nazionale Salute Mentale.

Bibliografia

  • Cook J.A. et al. Results of a multisite randomized trial of supported employment interventions for individuals with severe mental illness. Archives of General Psychiatry, 2005 62(5),
  • Tsang HW et al. Review on vocational predictors: a systematic review of predictors of vocational outcomes among individuals with schizophrenia: an update since 1998. Aust N Z J Psychiatry. 2010 Jun; 44(6)
  • Becker, Deborah et al. “Benchmark Outcomes in Supported Employment”. American Journal of Psychiatric Rehabilitation 14 (3): 2011

Riabilitazione Territoriale

Obiettivo essenziale della riabilitazione psichiatrica e l’apprendimento di abilità sociali. Una tecnica che si pone in tale prospettiva, ed è oggetto di studi numerosi a livello internazionale, è il cosiddetto Social skills training.

Nasce dalle teorie di apprendimento sociale note come Social learning, (Bandura 1977) corrente del comportamentismo che è andata oltre il semplice concetto di rinforzo per approfondire un’altra modalità di apprendimento, quella dell’imparare osservando gli altri. Si tratta di tecniche comportamentali di apprendimento, in genere somministrate in moduli semistrutturati, in setting di gruppo.

Per social skills (abilità sociali) s’intendono le componenti comportamentali (modificabili dall’apprendimento) della competenza sociale, cioè l’abilità di raggiungere obiettivi personali nell’interazione con gli altri, e nei diversi contesti di vita.

Nella proposta di Autori influenti come Robert Paul Liberman, (Liberman et. al, 1989) i moduli semistrutturati devono riguardare gli ambiti di vita fondamentali per il paziente, dalla gestione dei farmaci e dei sintomi, alle relazioni interpersonali, al lavoro, alle amicizie, alla famiglia, ecc.

Si deve dunque dare per acquisito sperimentalmente il concetto che, nei disturbi psichici gravi, le abilità sociali carenti possano essere apprese, attraverso programmi specifici, che sfruttano soprattutto i meccanismi di gruppo.

Questa pratica è molto presente nelle esperienze italiane e piemontesi, anche se viene per lo più attuata con modalità diverse da quelle contenute nei rigidi protocolli manualizzati delle ricerche internazionali.

L’apprendimento sociale attraverso il gruppo è a fondamento, ad esempio, degli interventi in Centro diurno, sia quelli impostati con singole attività riabilitative di gruppo, centrate su attività quotidiane o ludiche, ma che richiedano una più o meno impegnativa performance relazionale (quelle che fanno “rizzare i capelli in testa” agli amministratori, come il gruppo cucina, gruppo giornali, gruppo calcio…); sia quelli in cui è la condivisione della quotidianità, il clima sociale e l’atmosfera del gruppo, più che singole attività strutturate, a fornire da stimolo all’apprendimento sociale: le cosiddette comunità diurne.

Un altro modello riabilitativo territoriale più vicino alle esperienze italiane, e rispondente alle esigenza di forte integrazione degli interventi  espressa dal Piano di Azioni Nazionale sulla salute mentale del 2013,  è conosciuto nella letteratura internazionale come Training in Community Living (Stein, Test, 1980).

Secondo tale approccio, l’apprendimento di abilità sociali deve avvenire nei contesti di vita reale e non  in contesti artificiali; devono essere gli operatori a raggiungere l’utente nei suoi luoghi di vita abituali, sul territorio, e non viceversa.

Da questa filosofia nasce un modello d’intervento validato sperimentalmente: l’Assertive Community Treatment (ACT) Il modello ACT si fonda su criteri organizzativi molto specifici e precisi (Sahmsa.gov) : équipe territoriale multidisciplinare  (medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali); rigidi criteri di ammissione alla presa in carico; utenti molto gravi con elevati tassi di recidiva e ospedalizzazione; numero limitato di pazienti in carico (dieci-quindici utenti per ogni operatore).

L’approccio si definisce assertivo in quanto implica una propensione attiva nei confronti degli utenti o delle famiglie che non chiedono o che sabotano il trattamento. L’obiettivo è: zero drop out. D’altra parte assertività non significa coercizione: viene perseguito il coinvolgimento costante, e il più ampio possibile, dell’utente nella definizione degli obiettivi.

Dal punto di vista organizzativo l’approccio è di squadra: più di un componente dell’équipe ha contatti regolari con ogni singolo utente; si tengono riunioni d’équipe quotidiane; i casi vengono condivisi, la responsabilità clinica appartiene non al singolo operatore ma all’équipe; il responsabile dell’équipe è coinvolto direttamente nel lavoro clinico. Esiste un progetto clinico definito (e scritto) per ogni utente.

Gli interventi devono essere flessibili e ad ampio raggio: dalla gestione territoriale della crisi, alla gestione clinica ordinaria, alla riabilitazione, all’inclusione sociale. Devono essere possibili interventi in continuità 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno; devono essere previsti interventi attivi e costanti sul  contesto: familiari o reti  di supporto. Si deve mirare al coinvolgimento diretto di volontari e/o di utenti e familiari esperti.

Come già detto, è una modalità organizzativa che ricorda molto da vicino quella delineata dal Piano d’Azioni nazionale per la salute mentale per la presa in carico dei pazienti gravi e complessi. Corrisponde in maniera abbastanza precisa ai progetti di Domiciliarità e all’organizzazione territoriale “forte”, che alcuni Csm italiani e piemontesi si sforzano ancora di garantire, nonostante il sottigliarsi drammatico delle risorse.

A livello internazionale il modello ACT è stato studiato in numerosi studi controllati e ha dato i seguenti risultati: riduzione significativa del tasso di ospedalizzazione; miglioramento dell’adesione ai trattamenti e della soddisfazione dell’utente; miglioramento di alcuni esiti di funzionamento sociale (ma non tutti). Per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi, l’Act non è significativamente superiore ai trattamenti standard, il che non è sorprendente, visto il carattere riabilitativo e non strettamente terapeutico, del modello (Roberts et al. 2006).

Bibliografia

  • Bandura, A. . Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change. Psychological Review, 1977
  • Liberman Robert Paul et al, Social Skills Training for Psychiatric Patients, New York, Pergamon Press, 1989,

Normative e Riabilitazione

I principi della riabilitazione proposti dalla letteratura scientifica internazionale, trovano una sostanziale corrispondenza nei fondamenti normativi dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese, così come essa è definita (almeno sulla carta) dal Progetto Obiettivo Nazionale nella sua ultima versione (1998-2000) e dal Piano di Azioni Nazionale per la Salute mentale, approvato dalla Conferenza Unificata Stato Regioni nel 2013 e subito recepito dalla Regione Piemonte.

Il Progetto Obiettivo definisce in maniera inequivoca che la priorità va: “ad interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali gravi, da cui possono derivare disabilità tali da compromettere l’autonomia e l’esercizio dei diritti di cittadinanza con alto rischio di cronicizzazione e di emarginazione sociale».

Il Piano di Azioni del 2013 stabilisce quattro aree di bisogni prioritari, di cui la prima (area esordi e intervento precoce) e la terza (area disturbi gravi, persistenti e complessi) riguardano in maniera diretta i pazienti di cui si occupa la letteratura sulla riabilitazione psichiatrica e sulla recovery.

Ma cosa s’intende per disturbi gravi, persistenti e complessi? Nella letteratura internazionale, questo concetto, descritto come malattia mentale grave, è definito in maniere diverse; una delle definizioni più semplici pragmatiche si deve ad un’Autrice italiana, Mirella Ruggeri, dell’Università di Verona, (Ruggeri et al., 2000) la quale propone tre criteri:

  • uno clinico (diagnosi di disturbo psichico maggiore, ovvero psicosi, disturbo maggiore dell’umore o disturbo grave di personalità)
  • uno di funzionamento individuale (funzionamento relazionale e sociale gravemente compromesso, come misurato da una scala validata, il VGF, che deve avere un punteggio inferiore a 50);
  • uno di processo istituzionale (necessità di uso continuativo dei servizi psichiatrici per più di due anni).

Se almeno due di questi criteri vengono soddisfatti, si è in presenza di un disturbo grave e invalidante. La prevalenza della malattia mentale grave, così definita, è molto bassa: circa lo 0,2 % l’anno (200 pazienti ogni centomila abitanti), ma riguarda la sottopopolazione di utenti più sofferente e bisognosa, appunto quella cui devono essere destinate la maggior parte delle risorse terapeutiche riabilitative.

Naturalmente la realizzazione pratica, nella realtà concreta, dei principi sanciti dalla letteratura e dalle normative, dipende da come i servizi psichiatrici sono organizzati e dalla cultura (dalle idee e dai valori di fondo) degli operatori che vi lavorano.

Anche gli aspetti organizzativi necessari sono sintetizzati in definizioni ufficiali, come quella del Royal College of Psychiatrists britannico: ” L’approccio riabilitativo ideale comprende un insieme di servizi ad ampio raggio, che garantiscono continuità, coordinamento e orientamento al punto di vista dell’utente”. (Roberts et al., 2006)

Secondo l’Uspra : “I servizi riabilitativi sono collaborativi, diretti alla persona e individualizzati. Tali servizi sono una componente essenziale della rete dei servizi sanitari e sociali e dovrebbero essere evidence based”. (USPRA, 2007)

Anche il Piano di Azioni Nazionale del 2013 prescrive un’impostazione organizzativa precisa: “La presa in carico si rivolge ad un soggetto che è riconosciuto parte attiva di una relazione di cura e si fonda su un rapporto di alleanza e di fiducia con l’utente, i suoi familiari e le persone del suo ambiente di vita. Il servizio psichiatrico che si assume la titolarità della presa in carico di un utente deve comunque offrire un supporto complessivo in tutto il percorso del paziente (interventi territoriali, ospedalieri, di emergenza/urgenza, residenziali e semiresidenziali) e garantire la risposta in tutte le fasi del trattamento”.

Non c’è dubbio che per garantire gli ambiziosi, risultati della riabilitazione psichiatrica è necessario un insieme organizzato di attività integrate e non singoli interventi fra loro non coordinati. A questo proposito il Piano d’Azioni arriva a specificare che: “ il concetto di LEA in salute mentale viene inteso come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”.

In questo senso è escluso che un Dipartimento di salute mentale che si limiti (come purtroppo spesso accade) ad erogare frammentarie prestazioni mediche o psicologiche, secondo un’ottica da ambulatorio specialistico, o interventi ospedalieri, possa ritenere di adempiere al proprio mandato istituzionale.

Curare adeguatamente i pazienti più gravi e prioritari significa applicare alcune strategie di fondo della riabilitazione psichiatrica (Siani et al., 1991): multidisciplinarita’ per l’ampiezza degli ambiti di intervento, che richiedono  varie professionalità: medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali; stretta integrazione e continuita’ di ogni intervento, medico, psicologico o socio-assistenziale, che deve essere coordinato con gli altri in una strategia complessiva a medio-lungo termine; territorialita’ perché gli operatori devono conoscere e agire ogni volta che serve nel contesto di vita del paziente, anziché incontrarlo solo in ospedale o in ambulatorio.

Il fatto che gli strumenti riabilitativi utilizzati debbano essere evidence based, ovvero studiati con metodologia scientifica che ne dimostri l’efficacia, è un altro principio ineludibile.

Non è esagerato dire che, se non applicano i principi della riabilitazione psichiatrica, i servizi di salute mentale, semplicemente, non fanno  il loro mestiere, cioè non sono in grado di realizzare il mandato istituzionale previsto dalle leggi,  per cui vengono finanziati dal contribuente.

 

Bibliografia

  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  •  Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of psychiatric rehabilitation. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, www.uspra.org