LA VECCHIA AMMINISTRAZIONE REGIONALE PIEMONTESE HA ESCLUSO DAI LEA (i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni cui tutti i cittadini hanno diritto gratuitamente) i principali capisaldi della riabilitazione psichiatrica: borse lavoro, assegni terapeutici e residenzialità leggera, tra cui, in primo luogo, i gruppi appartamento.
La motivazione addotta è di tipo economico e la responsabilità della scelta viene indebitamente attribuita al governo nazionale. In una Deliberazione del 21 maggio 2014, 4 giorni prima delle elezioni, la Giunta Cota scrive:
“Nell’ambito della verifica dell’attuazione del Piano di rientro della spesa sanitaria, il tavolo nazionale di verifica e monitoraggio dei LEA ha richiesto alla Regione Piemonte il riallineamento delle quote di compartecipazione alla spesa da parte del servizio sanitario regionale, prevedendo che le Asl, a decorrere dal gennaio 2014, non possano più scrivere nei loro bilanci risorse per prestazioni aggiuntive oltre i Lea previsti a livello nazionale”.
E specifica: “Tra queste prestazioni aggiuntive, particolare rilievo assumono quelle relative agli assegni terapeutici per pazienti psichiatrici alternativi al ricovero in struttura, alle borse lavoro per pazienti psichiatrici, alla copertura della quota sociale per i gruppi appartamento psichiatrici”. (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/25/attach/dgr_07629_070_21052014.pdf)
La normativa nazionale a cui si fa riferimento è il D.P.C.M 14/02/2001, Allegato 1, punto 1.c, dove si parla di “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali è stata prevista una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al S.S.N.”
E’ davvero difficile comprendere come la delibera regionale abbia potuto ritenere applicabile questa definizione agli assegni terapeutici, alle borse lavoro (cioè ai tirocini a valenza terapeutico riabilitativa) e ai gruppi appartamento psichiatrici (la cosiddetta “residenzialità leggera”)
Si tratta, infatti, di prestazioni che hanno una chiara e inequivoca natura terapeutico-riabilitativa; forse, in assoluto, le più coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica, così come è oggi definita a livello internazionale. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf) Non è sostenibile che, in esse, la componente sanitaria e quella sociale non siano distinguibili.
Perché sia da considerarsi sanitario, un intervento deve possedere alcuni requisiti e la riabilitazione psichiatrica li possiede tutti. In primo luogo, serve a migliorare gravi problemi di salute. In secondo luogo si avvale di tecniche validate, che richiedono una competenza professionale specifica, e hanno un’efficacia comprovata con metodo scientifico, e riconosciuta da milioni di utenti e familiari che ne usufruiscono da decenni in tante parti del mondo. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf)
Sociali sono gli ambiti di applicazione dei risultati (vivere in autonomia, lavorare, formarsi una famiglia, ecc.) e psicosociali sono gli strumenti operativi, ma non certo il processo in sé.
I disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone; la compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui migliorare il funzionamento e l’inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario.
Inoltre, è noto che il ricorso ampio e strutturato a programmi riabilitativi territoriali, come quelli di domiciliarità e di residenzialità leggera, è la strategia più efficace per ridurre i principali capitoli di spesa dei dipartimenti di salute mentale: i ricoveri in ospedale e casa di cura e, soprattutto, le strutture residenziali “pesanti”.
L’applicazione della delibera del 21 maggio scorso avrebbe dunque conseguenze disastrose dal punto di vista clinico, e sortirebbe l’effetto opposto a quello ipotizzato, dal punto di vista economico.
Cercheremo di argomentare nel modo più preciso possibile ognuna di queste affermazioni.
CHE COSA, IN SALUTE MENTALE, SI PUO’ CONSIDERARE TERAPEUTICO-RIABILITATIVO, dunque integralmente sanitario?
La risposta va cercata nella letteratura scientifica internazionale e non certo nelle normative o nelle delibere regionali. D’altra nessuna normativa nazionale si è mai sognata di contraddire i principi della letteratura, né di escludere la riabilitazione psichiatrica dai livelli essenziali di assistenza.
Lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M. 2001 chiamato in causa, include fra le prestazioni a carico totale del Servizio sanitario nazionale, a pagina 33: “le prestazioni ambulatoriali, riabilitative e socio-riabilitative presso il domicilio”; a pagina 35: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime semiresidenziale”; a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.
Tuttavia, nella stessa pagina 38 del D.P.C.M. appare il paragrafo che è stato utilizzato dalla vecchia Giunta, con un‘interpretazione a nostro avviso fuorviante, per giustificare il declassamento ad extra-LEA. In esso si prevede una compartecipazione del 60% da parte dell’utente o del Comune per “accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale e programmi di inserimento sociale e lavorativo”. Consideriamo ciascuno di questi punti, cominciando dall’ultimo:
- 1. programmi di inserimento lavorativo. L’equivoco riguarda la differenza fra diritto all’accesso al mondo del lavoro per le persone svantaggiate (obiettivo chiaramente sociale) e interventi riabilitativi sulle abilità lavorative (obiettivo chiaramente sanitario).
Le cosiddette borse lavoro, meglio definite come tirocini lavorativi a carattere terapeutico-riabilitativo, rientrano senza il minimo dubbio nella seconda categoria. Non hanno l’obiettivo di garantire al paziente un posto di lavoro, né un reddito minimo, bensì di agire sulle difficoltà di funzionamento relazionale, correlate alla patologia, rilevanti ai fini della sua capacità di trovare e mantenere un’occupazione. Essendo la disfunzione relazionale in ambito lavorativo conseguenza diretta della patologia, l’intervento correttivo sulla disfunzione ha natura esclusivamente sanitaria.
Il fatto che il lavoro riguardi la dimensione sociale dell’individuo non rende la riabilitazione lavorativa un fenomeno sociale, così come la rilevanza sociale della deambulazione non declassa a fenomeno sociale la riabilitazione motoria. L’effettivo reperimento di un posto di lavoro non è l’obiettivo dei tirocini riabilitativi; semmai può essere considerato un indicatore di esito della loro efficacia, e come tale viene utilizzato nella ricerca scientifica internazionale http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2800143/
Anche il fatto che, in alcune situazioni, le borse lavoro si protraggano per anni, non toglie nulla alla loro natura riabilitativa. Molte altre tecniche psichiatriche vengono utilizzate in modo continuativo per anni, come ad esempio i gruppi riabilitativi in contesti semiresidenziali e residenziali; lo stesso avviene per patologie croniche non psichiatriche, come ad esempio quelle neurologiche degenerative, che richiedono interventi riabilitativi protratti nel tempo per mantenere la abilità acquisite.
Utilizzando la classificazione del D.P.C.M. del 2001 che norma i LEA, le borse lavoro non dovrebbero essere inserite fra i programmi di inserimento lavorativo (che pure esistono e talvolta i Csm gestiscono, in collaborazione con altri enti, come i centri per l’impiego e i comuni) bensì fra gli interventi riabilitativi; in particolare quelli previsti a domicilio, visto che la dicitura non può essere intesa come il domicilio fisico, ma riferita ai pazienti che vivono a domicilio, e dunque intesa come sinonimo di intervento territoriale; oppure in contesto semiresidenziale.
- 2. programmi d’inserimento sociale Il DPCM del 2001 non si dilunga a spiegare di che cosa si tratti. La vecchia Giunta del Piemonte sembra intenderli come sinonimo di progetti sostenuti da assegni terapeutici (termine che nel documento nazionale sui LEA non viene mai citato).
Si tratta di un altro grave fraintendimento. Anche se spesso, nel linguaggio comune dei servizi, vengono definiti “sussidi”, gli assegni terapeutici non hanno affatto una natura sociale; non servono a garantire l’inserimento sociale attraverso il sostegno al reddito.
Il termine stesso ne delimita il profilo, che è rivolto a realizzare obiettivi terapeutico-riabilitativi sul territorio, in situazioni in cui non è possibile, o non è utile, un intervento economico di tipo sociale o assistenziale.
Ad esempio, è terapeutico l’assegno che serve ad acquistare un abbonamento dell’autobus o del treno, per un paziente che deve partecipare a un programma riabilitativo mirato all’uso dei mezzi di trasporto pubblico, se il paziente non ha diritto a conseguire, o non è clinicamente utile che consegua al momento, diversi supporti sociali (come ad esempio una percentuale d’invalidità che gli consentirebbe la libera circolazione sui mezzi).
Ma, spesso, il più importante uso degli assegni terapeutici da parte dei Centri di salute mentale è quello di sostegno ai cosiddetti progetti di domiciliarità.
Non si tratta di interventi volti a garantire il diritto all’abitare (obiettivo di tipo sociale, che spetta ai Comuni e all’Agenzia Territoriale della Casa) ma di programmi terapeutico-riabilitativi, che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Csm.
L’obiettivo è profondamente coerente con i principi della riabilitazione psichiatrica: fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009) http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf
Vivere, e curarsi, a domicilio (sia che si tratti del proprio, o di un’abitazione conseguita con il supporto anche economico del servizio) ha il significato di un addestramento e di un percorso di crescita; sfruttare un contesto privilegiato per sviluppare le risorse emotive e interpersonali che la patologia indebolisce, e che vengono stimolate in modo molto più efficace in un contesto di normale abitazione, piuttosto che in un’istituzione sanitaria.
La domiciliarità è una tecnica riabilitativa insostituibile, rivolta a persone con patologie gravi e persistenti, la cui rilevanza sanitaria è lampante e niente affatto indistinguibile dagli interventi sociali.
Storicamente, nella realtà dei servizi piemontesi si è sviluppata nella cornice istituzionale dei cosiddetti progetti individuali territoriali (anch’essi oggetto di bruschi tentativi di ridimensionamento da parte della vecchia amministrazione regionale nel 2013), per acquisire, col tempo, un’identità propria.
Ha molti punti in comune, dal punto di vista teorico e organizzativo, con modelli riabilitativi accreditati a livello internazionale, come l’Assertive Community Treatment (ATC) http://store.samhsa.gov/shin/content//SMA08-4345/BuildingYourProgram-ACT.pdf
- 3. accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale. Questa definizione viene intesa dalla delibera della Giunta Cota come applicabile a tutti i gruppi appartamento. Nelle bozze di delibere, mai approvate, sulla regolamentazione delle residenzialità leggera, era estesa anche alle comunità alloggio e quindi a tutte le strutture diverse dalle comunità protette di tipo A e B.
Riservare alle sole strutture residenziali “pesanti” un puro carattere sanitario equivale al considerarle gli unici strumenti con un pieno potenziale terapeutico riabilitativo. In più, il fatto che rimangano le uniche strutture per cui è garantita l’assoluta gratuità per i pazienti, le loro famiglie e per i servizi sociali, porterebbe inevitabilmente a incrementarne l’utilizzo, molto al di là di quanto sia necessario dal punto di vista clinico, per pure ragioni economiche.
La vecchia normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica, D.C.R. 357 del 1997, stabiliva una correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa e caratteristiche strutturali; prevedeva, per le comunità protette di tipo A e B, cui era affidato il compito teorico di assicurare gli interventi più intensivi, requisiti abitativi analoghi a quelli di strutture sanitarie simil-ospedaliere, per quanto riguarda metratura, impianti sanitari, accessibilità. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf
Tali requisiti sono realizzabili solo in ambiti abitativi ampi, in grado di ospitare un numero consistente di pazienti: almeno venti, con la possibilità di affiancare più unità da venti posti nello stesso comprensorio. Strutture di questo tipo difficilmente trovano collocazione in ambito urbano, sono molto costose da acquisire e da gestire, per cui non possono sostenersi con un numero di pazienti inferiore a quello massimo previsto (non risulta che operino in Piemonte CPA o CPB con un numero di posti inferiore a 20, nonostante la normativa di per sé non lo vieti).
La residenzialità psichiatrica piemontese, nella sua evoluzione concreta, è andata oltre a questo limite, approfittando della flessibilità concessa dalla stessa DCR 357, che non prevedeva standard di personale rigidi per le strutture “leggere”, come i gruppi appartamento e le comunità alloggio.
Hanno potuto nascere strutture di dimensioni assai più ridotte ( da 5 o 6 fino a 10-12 ospiti), con caratteristiche di civile abitazione, non simili a istituzioni sanitarie tradizionali, collocate più facilmente nei centri urbani, ma con dotazioni di personale e organizzazione tali da garantire interventi ad elevata o intermedia intensità riabilitativa, potendo porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, a CPA e CPB.
E’ stato così dimostrato che le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.
Al contrario esistono almeno due fattori specifici di “terapeuticità” delle strutture leggere, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali; il secondo è il numero più ridotto di utenti che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo.
Le strutture leggere organizzate con questa logica non hanno nulla a che fare con l”accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale”: sono vere strutture riabilitative.
Non è dunque accettabile alcun automatismo, come quello che proponeva sulla carta (per poi contraddirlo nei fatti), la DCR 357; la leggerezza strutturale non significa, in automatico, leggerezza funzionale.
L’esclusione, ex lege, dai LEA dovrebbe riguardare solo quelle strutture, pur esistenti, che hanno davvero una connotazione assistenziale a bassa soglia, e non tutte le strutture finora classificate come gruppi appartamento o comunità alloggio.
Mantenere all’interno delle prestazioni essenziali le strutture leggere a connotazione terapeutico riabilitativa, naturalmente, non impedirebbe di prevedere modalità personalizzate di contribuzione economica da parte degli utenti, come già ora avviene in molto situazioni, all’interno dei progetti terapeutici individuali.
QUAL E’ L’IMPATTO ECONOMICO DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA?
I progetti di riabilitazione territoriale che la delibera della vecchia Giunta regionale ha escluso dai LEA, quando organizzati in maniera efficiente, hanno l’effetto di ridurre la spesa complessiva dei Dipartimenti di salute mentale. In particolare, la residenzialità leggera e la domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.
I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002 http://bjp.rcpsych.org/content/181/3/220.long) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti.
Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23712514), su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.
Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione.
Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.
Negli ultimi anni, molti servizi, sviluppando in maniera strutturata reti di residenzialità leggera e progetti integrati di domiciliarità, sono riusciti a ridurre la spesa residenziale complessiva; sia agendo in senso preventivo, per evitare nuovi inserimenti, sia rendendo possibili dimissioni da strutture a costo elevato.
Sarebbe auspicabile che questi dati venissero resi noti il prima possibile agli Amministratori regionali e a tutti gli utenti e operatori della salute mentale.
Le prestazioni a rischio di ridimensionamento con l’esclusione dai LEA (borse lavoro, progetti di domiciliarità, residenzialità leggera) sono strumenti di comprovata efficacia dal punto di vista clinico ed economico. Proseguire nella direzione della Delibera del 21 maggio 2014, comporterebbe un grave peggioramento della qualità dei servizi riabilitativi psichiatrici nella Regione Piemonte e avrebbe conseguenze economiche opposte a quelle dichiarate, perché comporterebbe un netto aumento della spesa, a vantaggio di progetti residenziali ad elevata protezione e costo.
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