La Grande Menzogna

Rime sparse in sulle prode riarse, di quella che un dì vitale, è oggi invero la Salute Mentale

Eccome virtuose sono le parole che oggi van di moda

Territorio, Domiciliarità e Budget di Salute, ciascun le loda.

Son esse pregiate e di esempio

Ma ahinoi in pratica se ne fa largo scempio

E si scrive si dice e si fa,

Ma lo volete saper qual è la dura verità?

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DGR 29 Psichiatria e Natale 2017: i pro ed i contro

Ed infine ebbe inizio…

Dopo anni di lotta, svariati ricorsi e migliaia di ore spese a parlare, pensare, suggerire, combattere ed affaticarsi, il 7 settembre 2017 il TAR del Piemonte ha posto la parola fine, bocciando quasi tutti i ricorsi e legittimando la DGR in oggetto.

Così l’Assessore Saitta :

“Siamo soddisfatti per l’esito della sentenza del Tar che ha respinto il ricorso di alcuni soggetti contro le delibere adottate lo scorso anno e nel 2015 dalla Giunta regionale sulla psichiatria.

I nostri provvedimenti intervenivano in una materia che per lunghi anni non era stata affrontata. Vogliamo mettere ordine in un settore assai delicato per i pazienti, seguendo il criterio dell’appropriatezza. Nessun trionfalismo: ora, più che mai, prosegue il nostro lavoro per dare certezza di cure ai malati e alle loro famiglie e per spiegare a tutti gli interlocutori la validità dell’impianto che, con gli uffici dell’assessorato, abbiamo predisposto.”

Sulle spiegazioni, i tavoli di monitoraggio ed il “nessun trionfalismo” molto ci sarebbe da dire, se non fosse faccenda assai delicata sarebbe persino da riderci ; ma non è l’oggetto di questo scritto.

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30 volte 30. L’apocalisse ed il nocciolo della questione psichiatria in Piemonte

In seguito alla pubblicazione della Deliberazione della Giunta Regionale 3 giugno 2015, n. 30-1517 con oggetto il riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria a firma congiunta degli Assessori Ferrari e Saitta, si è aperto un nuovo scenari-cavalieriio nella psichiatria piemontese. Sono divampate polemiche, si sono cercate mediazioni, chieste audizioni, prodotti documenti di ogni sorta. Infine c’è stato un ricorso al TAR che ha sospeso la delibera. Il tempo è passato gli scontri continuati. Oggi dopo più di un anno è in arrivo una nuova versione della DGR succitata. Fatte alcune modifiche di poco conto, in sostanza restano un arretramento culturale marcato e l’inizio del disfacimento del lavoro territoriale. Evocare l’apocalisse è troppo? Non crediamo soprattutto andando al nocciolo del problema. Vediamo perché. Dal greco  apó (“da”) e kalýptein (“nascosto”), il termine si può intendere come catastrofe o tragedia  ma più propriamente  indica una rivelazione,  una scoperta o il disvelamento di un mistero.

Perché tanta ostinazione in una Giunta Regionale, fatta da persone della cui onestà qui non si dubita? Perché un partito che della concertazione sociale, come il PD, ha sempre fatto un vanto, qui invece si è dimostrato restio, rigido al limite dell’arroganza?

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Corsi e Ri-Ricorsi (1 di 3)

Nulla di fatto ? Ancora TAR ?

Facciamo il punto sulla Nuova DGR 30

 

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BREVE SINTESI DI UNA VIA CRUCIS (2014-2016)

Dopo tanti sforzi, tante parole, tutto rischia di tornare al punto di partenza, se la nuova delibera sulla residenzialità psichiatrica dovesse rivelarsi una deludente fotocopia di quella vecchia. Siamo disfattisti?

Lungi da noi voler denigrare la Regione o offendere alcuna carica istituzionale, anzi, se ci sbagliassimo andremmo ben lieti, e in ogni dove, a scusarci e ringraziare, l’Assessore per primo. Ma provate a seguire questa stringata cronaca degli avvenimenti per comprendere il motivo delle nostre rinnovate preoccupazioni.

21 maggio 2014: a quattro giorni dalle elezioni regionali la Giunta Cota uscente, a firma dell’Assessore Cavallera, propone una DGR di riordino della residenzialità psichiatrica. Per fortuna quel provvedimento, tecnicamente troppo sbilanciato a favore di un modello para-ospedaliero, non trova corso, il PD vince le elezioni e ripromette quanto sostenuto in campagna elettorale: la nuova Giunta ascolterà tutti e proporrà una riforma più equilibrata e “progressista”

giugno 2015: iniziano a circolare bozze di una nuova DGR sulla psichiatria. Esplode un vespaio. La delibera è molto peggio della precedente e incassa  il parere contarlo di tutti: Dipartimenti di Salute Mentale, Associazioni di familiari e pazienti, ANCI, Enti Gestori profit e no profit. Tutti in modi simili sostengono che questo atto  rischi di cancellare gli ultimi venti anni di sperimentazioni piemontesi e scaraventare la psichiatria cinquanta anni indietro, per così dire all’epoca pre-Basaglia.

Si cerca la mediazione con la Regione ma si comincia a pensare a ricorere al Tar.

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DGR 30: Diagnosi e Politica

Breve elogio dell’Appropriatezza.

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E’ pensabile trovare Via Artom usando questa cartina di Torino del 1800?

Riuscirò mai a tradurre la parola araba  تعكس “riflettere” cercandola in un vocabolario Italiano-Cinese?

Patrimonio del buon senso e del pensiero scientifico è che per comprendere un evento si necessiti dei codici appropriati, utili a tentare di decifrarlo. Ahimè nella vita in generale, e nelle professioni PSI questo non accade  sovente. Continua a leggere DGR 30: Diagnosi e Politica

GRUPPI APPARTAMENTO: terapeutico non significa coperto sulle 24 ore

Verso una Definizione di Terapeuticità dei Gruppi Appartamento

 

appartamento terapeuticoDGR 30 atto secondo: finalmente la fase propositiva!

Dopo una lunga “battaglia” culturale, politica e legale si cambia verso in Piemonte.

Grazie all’impegno delle Associazioni di familiari e pazienti, del Privato Sociale e del Privato Profit che hanno fatto sentire la loro voce ricorrendo al TAR.

Grazie a quelle forze politiche che in Consiglio Regionale hanno chiesto alla Giunta Regionale di cambiare rotta proponendo documenti, simili a ciò che Abitazioni Terapeutiche chiede da quasi due anni, in primis riconoscere che almeno una parte dei gruppi appartamento ha carattere terapeutico ed è da comprendere fra le strutture sanitarie.

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LA PRATICA CLINICA NELLA RESIDENZIALITA’: STILE DI LAVORO O POSTI LETTO?

La salute mentale di un individuo o di un contesto relazionale, se attuato
attraverso un servizio professionale, orientato da una teoria dei
processi mentali e regolato da una contrattazione esplicita, è da
intendersi come psicoterapia (Barone, Bellia & Bruschetta, 2010).

L’articolo che viene citato in alto mette in luce un aspetto fondante della psicoterapia e cioè l’imprescindibilità di un pensiero che guidi l’azione. La psicoterapia può essere altro da quello che classicamente si intende e può avere luoghi diversi dalla stanza dello psicoterapeuta ma non può prescindere da un pensiero, da un senso che ne costituisce le fondamenta. La psicoterapia va pensata per il paziente e i pazienti non sono tutti uguali.
Ci troviamo adesso a parlare di residenzialità e di servizi di cura. Si parla di cura, di terapeuticità dei servizi. C’è chi vede i pazienti psichiatrici come individui senza speranza di miglioramento e quindi immagina come risposta a questo pensiero dei cronicari in cui garantire cibo e assistenza. C’è chi li reputa pericolosi, di una pericolosità angosciante perchè incomprensibile ed in questo caso propone una residenzialità fatta di sbarre e isolamento territoriale. C’è chi invece vede la malattia psichiatrica come la risposta umana ad una sofferenza che supera la capacità dell’individuo di farne fronte e che sfocia in una frammentazione. C’è chi coglie la complessità di una condizione esistenziale che affonda le sue radici nel mentale, nel familiare, nel sociale e pensa alla residenzialità come il luogo in cui poter lavorare a questi molteplici livelli a stretto contatto con il mondo.
C’è una lente dietro ad una pratica che con più o meno contraddizioni ne definisce il nucleo e le immagini predominanti.

In seguito alla risposta del Tar che ha bloccato la delibera 30 ci siamo trovati dentro ad una possibilità di cambiamento che se da una parte ridà forza ed energia al nostro lavoro dall’altra sembra bloccarci, dinanzi a tanta complessità. Troppe cose da fare. Troppe cose da definire. Ma poi questa delibera chi la riscrive?e se diciamo, ci esponiamo, saremo ascoltati?
Forse per essere ascoltati dobbiamo ascoltare. E se c è una cosa che viene richiesta espressamente ed imprescindibilmente dalla giunta regionale in merito ai servizi psichiatrici è quella di una definizione. Cosa fate? Cosa siete? Come lavorate?

A questa domanda si può rispondere in termini di posti letto, di ascensori più o meno presenti, di porte e di uscite di emergenza, o si può rispondere con la descrizione di una pratica clinica e di un stile di lavoro.
Noi ci abbiamo provato. Abbiamo provato a descriverci. Questo scritto vuole essere un invito rivolto ai colleghi perchè si impegnino nello stesso sforzo.

Ci piacerebbe leggere una descrizione dei servizi esistenti. Ci piacerebbe leggere degli stili di lavoro che stanno alla base di certi modi di funzionare. Forse ciò permetterebbe di uscire dal linguaggio dei posti letto e potrebbe innescare un dibattito costruttivo volto a riflettere su cosa è importante salvare e su cosa non lo è, al fine di garantire ai nostri pazienti sevizi di cura, connessi ai loro molteplici bisogni. E forse questa potrebbe essere l’occasione per confrontarci davvero su cosa intendiamo per cura in psichiatria.
Partiamo quindi dalla descrizione dello stile di lavoro della comunità alloggio presso cui lavoriamo nella speranza che questo attivi un circolo virtuoso di pensiero e di parola. I membri dell’equipe potranno contraddire o aggiungere aspetti in aperto, libero, confronto.
Sarebbe bello se si potessero sottolineare degli aspetti mancanti, che andrebbero integrati per migliorare il servizio.

COMUNITA’ ALLOGGIO

UTENZA:

La comunità alloggio in cui lavoriamo accoglie 10 pazienti con caratteristiche di eterogeneità sia rispetto alla sintomatologia (prevalentemente psicotica), sia rispetto al sesso e all’età (dai 20 ai 60 anni). La caratteristica di eterogeneità è considerata vincente perché consente ai pazienti di entrare in contatto con una molteplicità di esperienze raccontate e vissute e li porta ad un confronto con differenti fasi di percorso.
Il numero definito in 10 quindi ridotto, si propone l’intento di creare un clima quanto più familiare, e di consentire la visibilità e la gestione delle dinamiche emotive e relazionali. Consente inoltre agli operatori in turno di poter fornire spazi individuali ai pazienti, e di poter garantire la qualità del tempo trascorso insieme agli utenti.

FORMAZIONE OPERATORI

Caratteristica fondante della nostra equipe è la multidisciplenarietà: psicologi, educatori, oss, 1 medico psichiatra, colf . Ciò permette di integrare differenti punti di vista e competenze e di mantenere un’attenzione integrata alla cura del luogo, alla cura del sé, alla cura delle dinamiche emotive e relazionali che emergono, partendo dal presupposto che per curare è necessario avere la competenze per vedere e per raccogliere le dinamiche in atto, in maniera tale che diventino motivo di crescita e non elementi perturbanti di un equilibrio.
Questo lavoro che invece di tacitare la follia, permette di riconoscere il suo statuto di sofferenza umana e di esperienza esistenziale, fornisce ai pazienti uno spazio di crescita: la possibilità di evolvere.
Strumenti fondamentali perché l’equipe possa svolgere questo difficile compito, sono: una mensile manutenzione dell’equipe attraverso gli incontri di supervisione; una formazione continua relativa agli aspetti clinici; uno spazio di confronto tra operatori sui macrotemi della salute mentale; riunione d’equipe settimanale per aggiornamenti sui percorsi dei pazienti, discussione delle situazioni critiche e ipotesi di strategie di intervento; passaggi di consegne giornalieri di mezzora tra gli operatori che lasciano il turno e quelli che arrivano, per evidenziare situazioni critiche e confrontarsi sul da farsi.

INSERIMENTI

I pazienti afferiscono dai CSM del dipartimento con l’obiettivo di reinserimento progressivo nel tessuto sociale. Si tratta quindi di pazienti che per condizioni cliniche necessitano di un seguimento adeguato o per quelle patologie il cui decorso verrebbe influenzato negativamente dalla permanenza nell’ambiente familiare.
Durante le prime fasi di conoscenza viene proposto un contratto di reciproco impegno tra il paziente e la comunità in cui si esplicita la comune responsabilità relativa al percorso di cura. Costituisce questo il primo passo perché il paziente possa sentirsi soggetto attivo del suo progetto.
Nelle fasi iniziali l’attenzione dell’equipe è dedicata alla raccolta di informazioni provenienti dai curanti o da figure di riferimento che hanno avuto in carico il paziente precedentemente. Successivamente, attraverso l’osservazione diretta degli operatori, il tentativo è quello di rivalutare o arricchire le precedenti immagini del paziente a rischio di cronicità. Allo stesso tempo, l’osservazione è indispensabile per mettere in luce risorse e criticità dell’utente.

PROGETTO

La strutturazione del progetto individualizzato avviene attraverso il confronto tra i curanti, l’equipe, i familiari e i pazienti. Quest’ ottica multidimensionale è condizione necessaria per la riuscita del progetto. Consente infatti di tenere in conto le diverse variabili implicate nel contesto del paziente favorendo il suo cambiamento e quello della sua rete. Un ascolto privilegiato è rivolto alla storia che la persona ci racconta di sè, ai suoi vissuti e ai contenuti della sua sofferenza. Altrettanto importante è l’esperienza che il paziente fa in comunità nel contatto con gli operatori e con gli altri utenti e che diventa nuovo bagaglio di narrazione e oggetto di lavoro.
Il principale strumento di lavoro è la relazione con le sue diverse funzioni e a molteplici livelli:
Con l’operatore:
L’operatore è pensato come un professionista che nel suo zaino porta una formazione, una costante messa in discussione rispetto ai propri movimenti emotivi nel contatto con gli ospiti, ed una capacità di tenere un passo autenticamente impegnato e coinvolto nella relazione ed uno capace di riflessione sul processo. Si parte infatti dal presupposto che per un reale cambiamento sia necessario un incontro umano tra le parti coinvolte ma anche la consapevolezza di star svolgendo una funzione per l’altro volta ad una sua progressione.
A scopo descrittivo ne distinguiamo alcune:
funzione protesica ( l’operatore deve sostituirsi all’utente nello svolgimento di alcune mansioni)
funzione regolativa (l’operatore deve aiutare il paziente a modular comportamenti disfunzionali)
funzione confrontativa (l’operatore promuove nel paziente la messa in discussione di comportamenti disfunzionali)
funzione empatica (L’operatore si sintonizza con lo stato d’animo e il vissuto che il paziente porta consentendo così la creazione di una funzione emotiva condivisa).
Spesso un aumento negli interventi degli operatori delle ultime voci costituisce per il paziente importanti passi di progressione nel suo percorso.
Attività riabilitativa: l’operatore individua nelle risorse del paziente delle potenzialità da poter sperimentare in attività specifiche prevalentemente svolte all’esterno dalla comunità.
Diritto alla sperimentazione: a partire dal riconoscimento del paziente come soggetto in grado di rispettare regole di convivenza, la comunità pone come imprescindibili alcune poche regole lasciando poi un margine di sperimentazione al paziente finalizzato alla responsabilizzazione delle sue azioni.
-Con il gruppo:
Il gruppo è pensato come un importante risorsa per contrastare l’autismo caratterizzante il paziente psicotico, favorire la condivisione delle esperienze e pian piano una possibilità di espressione emotiva. Per questo lavoriamo prevalentemente sulla stimolazione di
Regole di convivenza: volte ad un apprendimento di modalità per incontrare il mondo ma anche finalizzate ad un aumento della percezione dei confini propri e altrui.
Confronto tra esperienze simili o diverse
Mediazione delle conflittualità e supporto al riconoscimento delle dinamiche relazionali in atto.
Questo avviene nel quotidiano, lavorando in itinere sugli accadimenti e i vissuti del tempo che trascorre ma anche attraverso una riunione ospiti con cadenza settimanale.
-con i familiari
Il rapporto con i familiari sia quando si esprime in un aperta conflittualità sia quando si esaurisce in una delega del paziente ai curanti, ha in sé elementi co-determinanti il malessere e la sofferenza del paziente. Si parte dal presupposto che il paziente non costituisce un’ isola di sofferenza ma si fa portavoce di un sistema familiare che soffre. Per questo rivolgiamo la nostra attenzione a
lavorare sulla qualità della comunicazione tra paziente e familiare
lavorare sulla conflittualità
lavorare sulla flessibilità delle immagini reciproche alle volte cristallizzate dal tempo o parziali
fare in modo che la famiglia diventi una risorsa
incoraggiare i rapporti con i servizi del territorio
lavorare sullo stigma sociale
Questo avviene nel quotidiano, mediando i contatti dei pazienti con i familiari ma anche nella presenza dell’operatore agli incontri ufficiali.
-con i servizi:
Gli operatori mantengono con i servizi un aggiornamento costante, un confronto di posizioni e osservazioni ed una collaborazione rispetto ai ruoli da assumere per favorire l’evoluzione del paziente. Ciò è finalizzato a:
favorire nel paziente il riconoscimento progressivo delle proprie difficoltà (spesso negate) e responsabilizzazione alla cura.
mantenere la continuità
fornire nuove chiavi di lettura
fornire spunti per immaginare possibilità di evoluzione
Per ciò che concerne i momenti di crisi (parentesi fisiologiche, spesso non prevedibili, ma allo stesso tempo occasione di rilettura del malessere e possibilità di crescita), le strategie di gestione adottate prevedono uno sguardo attento dell’ equipe e degli invianti nel tentativo di affrontare all’interno della struttura lo stato di acuzie. In primo luogo si riconosce al paziente il momento di difficoltà, offrendo un cosiddetto periodo di “mutua” durante il quale vengono pensate specifiche modalità di intervento (incremento di colloqui in ambulatorio, momentaneo sostegno farmacologico, l’esonero da alcune attività, il tavolo e il letto crisi per potersi distanziare dalle dinamiche della comunità sentendosi protetti e visti nel proprio disagio). In alcuni casi l’evitamento del ricovero (per taluni vissuto come possibilità di “stacco” e medicalizzazione detensivo) non è stato possibile. Per altri pazienti il superamento della crisi all’interno della comunità è stato, grazie alla collaborazione dei servizi, un’occasione per vivere la crisi con dignità, alimentando la fiducia nei curanti e la speranza e consapevolezza di poter affrontare le difficoltà in modo diverso e condiviso.
-con il territorio
Il contatti con il territorio si rivelano di fondamentale importanza perché consentono ai pazienti di connettersi con il mondo reale, di sperimentare modalità e strategie di contatto con il mondo in una situazione protetta, e di sperimentare e rafforzare le loro risorse e aree funzionanti. Fornisce inoltre al paziente la possibilità di provare a togliersi di dosso l’etichetta di malato psichiatrico e di pensarsi come individuo che vive un’umana sofferenza, in uno spazio ricco di potenzialità. Per questo lavoriamo perché il paziente faccia:
sperimentazione di luoghi nuovi e situazioni nuove (attività riabilitative)
rilettura dei propri luoghi
sperimentazioni di autonomie
modulazione degli stimoli esterni inizialmente indotta dagli operatori. Si lavora perché il paziente impari a riconoscere quando uno stimolo è eccessivamente forte e metta in atto delle strategie di protezione.

QUOTIDIANO

Il quotidiano è fatto di azioni, di cose che si fanno insieme a partire dal rifare il letto fino ai piatti della sera, ma anche di momenti in cui si sta vicini, in silenzio, in ascolto di cosa accade dentro, o momenti in cui si può provare a dire cosa sta capitando. Ci sono anche momenti in cui gli operatori fanno delle cose insieme e i pazienti osservano, vivono l’esperienza indiretta della collaborazione, del confronto, della presenza di persone che si stanno occupando di loro in un altro modo, e che sono in grado di mettere dei confini e delle regole, di strutturare i tempi, e di fare ordine nel caos.
Si parte dal presupposto che le azioni non sono terapeutiche di per sé ma lo sono quando hanno alla base un pensiero e un senso orientato ad un obiettivo che non può che essere individualizzato, ovvero specifico per ogni singolo utente. Per questo si limita la standardizzazione e si tende a personalizzare spazi e tempi.
Gli unici tempi standardizzati assumono funzione di rito (caffè, pasti, terapie, riunioni), che oltre ad avere un obiettivo ordinante hanno per i pazienti anche una funzione rassicurante e strutturante.
La presenza delle colf che si occupano della pulizia generale dei locali e della preparazione dei pasti, consente agli operatori di avere il tempo e lo spazio mentale per stare con i pazienti, raccogliere ciò che accade e lavorare sulle dinamiche emotive e relazionali. Nello stesso tempo fare delle cose con i pazienti (rifare il letto, preparare il caffè, riordinare la cucina a sera, avere attenzione e cura dei locali) fornisce la possibilità di veicolare messaggi simbolici di ordine, attenzione, struttura del sé ma consente anche agli operatori di entrare in una dimensione intima con l’utente che dice molte cose di se attraverso gli oggetti e il rapporto con essi (basti pensare all’armadio dei pazienti, ai loro comodini, agli oggetti in essi contenuti, ai ricordi). Gli oggetti costituiscono un elemento che media tra l’interno e l’esterno, tra il sé e l’altro ed è quindi importante veicolo di lavoro.
Il tempo insaturo, apparentemente vuoto costituisce un elemento chiave di lavoro. Può infatti essere utilizzato per l’osservazione di ciò che accade, per l’emergenza di nuove cose, per il pensiero dell’operatore su eventuali interventi o linee d’azione. Un attenzione è quindi rivolta al non riempimento del tempo.
Lo spazio è considerato un ulteriore elemento chiave, la cura e l’attenzione all’estetica, l’ambiente quanto più familiare, la non presenza di mobilio o presidi medici, favorisce la creazione di un clima interno oltre che esterno, di condivisione su un piano umano prima che medico e di dignità di persona e di sofferenza.
Si sceglie di limitare al massimo gli spazi chiusi. L’apertura consente infatti uno spazio mentale e fisico di incontro tra la regola e l’accettazione di essa. La possibilità di lavorare su cosa e permesso e cosa non lo è, invece di fornirlo a priori, consente un esperienza di introiezione della regola ed un lavoro sulle motivazioni e mondi sottostanti alla fatica di rispettarla. Permette inoltre al paziente di sperimentarsi come soggetto su cui si investono energie e su cui si appoggia una fiducia di riuscita.
All’interno dell’equipe si individuano due operatori di riferimento per ogni paziente. Le funzioni di questa figura sono molteplici: raccordo e contenitore della storia, dei momenti critici, delle evoluzioni del paziente; referente e narratore di tutto questo in equipe; supporto del paziente e alleanza con le sue posizioni e richieste.
Una importante funzione di triangolazione a molteplici livelli permette al paziente di sperimentare diverse posizioni, non sentirsi mai solo nella propria, e abdicare ad altri funzioni che lui non riesce a svolgere ma necessarie alla sua cura. Consente inoltre di uscire dall’impasse in situazioni in cui la rigidità del paziente si manifesta in tutta la sua forza. Questa funzione è svolta dall’operatore in turno non direttamente coinvolto nello scambio con il paziente (in turno c’è sempre una minima presenza di due operatori), dal medico (presente in comunità nelle situazioni più critiche e nelle riunioni d’equipe o comunque disponibile nella reperibilità telefonica), dal medico di riferimento dell’ambulatorio.

Compito della cosiddetta “residenzialità leggera” è quello di aiutare i pazienti a rileggere la propria storia, costellata di sofferenza e caoticità, lavorando su una progressiva scoperta di quelle risorse, che per quanto carenti e nascoste, potranno consentire all’utente di trovare una dimensione adatta a sè. Tutto questo può avvenire tramite un concetto di cura che comprenda aspetti terapeutici e riabilitativi. Diritto imprescindibile di ogni malato, ma prima ancora di ogni cittadino. Ci auspichiamo che tutto questo non venga spazzato via per il bene del paziente, di chi se ne prende cura e della società civile a cui tutti noi apparteniamo.. con le nostre difficoltà, le nostre fragilità, la nostra voglia di cambiare…in meglio…

Silvia Veltri, Psicologa, operatrice di comunità.
Maria Laura Trifilò, Psicologa Psicoterapeuta, operatrice di comunità.

INTERVISTA A PEPPE DELL’ACQUA SUL “RIORDINO” DELLA PSICHIATRIA PIEMONTESE

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“MISSILI INTELLIGENTI SULLA RESIDENZIALITA’? SI’, MA PER RISCOPRIRE IL SENSO VERO DELLA CURA”
Lo psichiatra triestino spiega il significato del suo intervento alle “giornate basagliane”

Se disponessi di missili intelligenti, li userei per abbattere in modo mirato tutte le strutture residenziali psichiatriche che hanno sostituito i vecchi manicomi, mantenendone di fatto la logica”. Firmato: Peppe Dell’Acqua. Il celebre psichiatra salernitano, che iniziò a lavorare con Franco Basaglia e che fino al 2012 ne è stato il materiale successore, dirigendo il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, ha spiazzato molti colleghi torinesi, che il 23 ottobre erano accorsi ad ascoltarlo al Caffè Basaglia di via Mantova, ospite d’onore delle “giornate basagliane”.

Ma come? L’evento non era stato organizzato innanzitutto per difendere la residenzialità psichiatrica piemontese? Per contrastare, sul piano culturale, la delibera della Regione Piemonte che rischia di stravolgere la rete di comunità e appartamenti costruita negli anni, grazie anche alla fatica e alla dedizione di tanti operatori “progressisti”?

In realtà, chi conosce meglio la storia dei servizi di Trieste non ha motivi per stupirsi, perché la polemica contro i “nuovi contenitori istituzionali” da sempre contraddistingue quell’esperienza, così come ben noto è lo stile comunicativo impetuoso e provocatorio di Dell’Acqua .

Ma al Caffè Basaglia non è stato possibile, per ragioni di tempo, sviluppare il dibattito e lo sconcerto di molti, e le tante domande che ne sarebbero derivate, sono rimasti senza risposta. Per questa ragione abbiamo ricontattato Dell’Acqua, il quale ha dato molto cortesemente la disponibilità a proseguire il discorso per telefono, in attesa di poterlo riprendere di persona, quando riuscirà a tornare a Torino.

Caro Dr. Dell’Acqua, la sua provocazione sulla necessità di “bombardare” tutte le strutture residenziali, senza distinzione fra pesanti e leggere, ha destato parecchio scalpore fra gli operatori piemontesi. Ci aiuti a capire meglio che cosa intendeva. Non esiste nemmeno una residenzialità buona e una cattiva? Davvero pensa che tutte le esperienze si equivalgano e che tutte siano solo una riedizione del manicomio?

Certamente no, non è quello che intendevo. E’ evidente che quella sui missili intelligenti è una provocazione, il cui scopo è invitare tutti a ritrovare uno sguardo critico: occorre innanzitutto ripensare a che cosa si intende per cura in salute mentale, che cosa significa affrontare, attraversare il disturbo mentale. So bene che anche nella cosiddetta residenzialità, tra gli operatori di base, si trovano i mille “nuovi Basaglia”, che, come dice Franco Rotelli, ogni giorno danno l’anima e tengono vivi i principi della riforma psichiatrica”.

E allora qual è il rischio che vede per le strutture residenziali?

“Il rischio è rimanere imprigionati nella logica del posto letto, far prevalere ancora una volte la psichiatria dei contenitori: il contenitore per le acuzie, che è il repartino ospedaliero; il contenitore per la sub-acuzie, che è la clinica convenzionata; e i contenitori per la cronicità, che sono le cosiddette residenze. Il problema è quando le comunità, o gli appartamenti, non sono contesti di cura, o abitazioni, ma luoghi dove stare: posti letto da occupare, e non occasioni per vivere ed evolvere nel mondo, attraversando il proprio disturbo. Non bisognerebbe mai parlare di posti letto ma di progetti e di percorsi”.

Qual è la differenza?

“Il progetto è sempre individuale, costruito su misura per i bisogni di quella particolare persona, è un concetto dinamico. Invece il posto letto è uguale per tutti, richiama innanzitutto la necessità di essere occupato, in modo statico. In una struttura che funziona come un insieme di posti letto, si sta; non si abita, non si evolve, non si vive. E non importa che sia una “bella struttura”; che i locali siano puliti, accoglienti o addirittura eleganti. Gli operatori devono resistere alla fascinazione del “bel luogo dove stare”, che è una riproposizione del modello del “buon manicomio”, a cui Basaglia si è sempre opposto con straordinaria determinazione”.

Ma in che senso i progetti devono sempre essere individuali? Non riconosce un ruolo terapeutico alla dimensione gruppale? Cioè al condividere la quotidianità con altre persone come esperienza terapeutica, che insegna ad “accorgersi dell’Altro”, ad acquisire competenze relazionali da spendere nel mondo?

“Certamente sì, a Trieste lo chiamiamo “abitare insieme”; si tratta di progetti per piccoli gruppi, in genere sei, massimo otto persone, in normali abitazioni. So che anche in Piemonte esistono diverse esperienze simili. Abitare è una prospettiva molto diversa dall’ “essere collocati” in una struttura. Sono situazioni che il Centro di salute mentale gestisce in collaborazione con il privato, mantenendo la titolarità del progetto complessivo; noi parliamo di co-progettazione, il che non significa semplice subalternità del privato al pubblico, ma nemmeno delega in bianco ad un soggetto terzo, attraverso il pagamento di una retta. In Friuli Venezia Giulia, come in altre Regioni (Emilia Romagna, Campania) abbiamo potuto sviluppare al meglio questo tipo di approccio grazie all’introduzione del cosiddetto budget di salute

Come funziona?

E’ un meccanismo amministrativo grazie al quale l’Asl può definire una previsione di spesa per una persona (un budget appunto) da utilizzare secondo un progetto personalizzato; ovvero, non solo per pagare una retta, acquistare un pacchetto preformato messo a disposizione da un fornitore, bensì per contrattare con l’utente e con il fornitore, o anche con più fornitori per aspetti diversi (ad esempio abitazione, lavoro, tempo libero), progetti fatti su misura e flessibili. In questo modo non è l’utente che deve adattarsi alla “struttura” ma il progetto che viene adattato ai bisogni della singola persona. La residenzialità, intesa come abitare, in un appartamento o in una convivenza protetta, non può rimanere scollegata dal progetto di vita complessivo, non può significare fuoriuscita dal mondo normale”.

Nell’ambito di questi progetti, operatori del Csm possono lavorare fianco a fianco con operatori del privato? In Piemonte è stata messa fortemente sotto accusa la cosiddetta commistione fra pubblico e privato.

Certo che possono, anzi devono! Il servizio pubblico deve garantire e coordinare tutti i percorsi di cura, non deve mai fornire deleghe in bianco o limitarsi a produrre, in modo formale, procedure di “invio”. Deve essere presente, con personale proprio, in tutte le fasi del percorso terapeutico e riabilitativo, che è sempre espressione della presa in carico territoriale. Per questo insistiamo sul ruolo del centro di salute mentale aperto 24 ore. Il rapporto fra pubblico e privato deve essere di partnership, di co-progettazione, attraverso procedure amministrative corrette e trasparenti, come quelle che il budget di salute consente. L’idea per cui la separazione deve essere rigida e assoluta, o fa tutto il pubblico o fa tutto il privato, è assurda”.

Lei insiste molto sulla personalizzazione dei percorsi. E’ informato che, a margine della delibera sulla residenzialità, la Regione Piemonte ha intimato ai servizi di non ricorrere a progetti individuali, di domiciliarità o per piccolo gruppo, in quanto non previsti dalla normativa?

Per l’appunto, come dicevo all’inizio, si tratta di ritrovare uno sguardo critico, tornare a ragionare su cosa significa cura in salute mentale. Il pericolo è attuare il cambiamento attraverso il “riordino” del peggio, cioè l’assoluto paradosso: eliminare quello che funziona bene e far diventare modello unico ciò che funziona peggio, il sistema dei posti letto e dei contenitori rigidi, separati dalla presa in carico, al di fuori dei quali non esiste più nulla; un sistema che non cura ma al contrario coltiva la malattia e produce cronicità ed esclusione”.

In conclusione, se abbiamo capito bene il messaggio agli operatori piemontesi atterriti dalla delibera sul riordino della residenzialità non è: “siate felici se vi fanno chiudere bottega…”

Ma no, certamente no. Piuttosto vuole essere: approfittatene, approfittiamone, per ripensare al nostro modo di lavorare, per tornare a dibattere, a far girare le idee. Non limitiamoci a difendere l’esistente, ma mobilitiamoci per diffondere le buone pratiche, sulle quali, evidentemente, non si è discusso a sufficienza e non sono abbastanza conosciute e sostenute

PERCHÉ LA DGR 30 MERITA DI ESSERE CANCELLATA DAL TAR

PERCHÉ LA DGR 30 MERITA DI ESSERE 

CANCELLATA DAL TAR 

 

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Lea, diritto alla Salute e Presupposti Normativi

 

Continuiamo a voler credere nella buona fede di chi ha scritto la Dgr 30. Ma, buona fede a parte,  manca tutto il resto: conoscenza della realtà concreta della residenzialità psichiatrica in Piemonte, conscenza della lettertura scientifica sulla riabiitazione, capacità di interpretazione corretta delle  normative vigenti. Su quest’ultimo punto si baseranno i numerosi ricorsi annunciati al Tribunale Amministrativo Regionale. Senza avere alcuna competenza giuridica, riassumiamo alcune delle motivazioni più macroscopiche, evidenti anche ai profani, per cui i ricorsi  ci sembrano  fondati e con buone probabilità di essere accolti.

 

Presupposti normativi

 

La Dgr 30 afferma di voler superare la vigente normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica (DCR 357 del 1997), applicando il cosiddetto modello Agenas Gism, promulgato dalla Conferenza Unificata Stato Regioni il 17/10/2013  e recepito dalla Regione Piemonte  con D.C.R. del 23 dicembre 2013, n. 260 – 40596.

Afferma inoltre di attenersi alla normativa nazionale sui LEA: livelli essenziali di assistenza (Decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229; Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29/11/2001).

Con tali premesse, assegna tutte le strutture esistenti sul territorio piemontese denominate “gruppi appartamento” e “comunità alloggio”, ai sensi della DCR 357 del 1997, alla tipologia socio-assistenziale, a bassa assistenza (SRP 3), e pertanto le esclude dai livelli essenziali di assistenza.

Al contempo considera tutte le strutture accreditate come “comunità protette di tipo A” e  “comunità protette di tipo B” ai sensi della DCR 357 come strutture terapeutiche e quindi  di totale competenza sanitaria.

Riteniamo che tale decisione rappresenti un’applicazione illegittima sia dell’Accordo Stato Regioni del 2013 sia, soprattutto, della normativa nazionale sui LEA.

 

Il modello Agenas Gism

 

E’ stato recepito dall’Accordo Stato Regioni nel 2013, e prevede che le strutture residenziali psichiatriche accreditate (SRP) debbano appartenere a tre diverse tipologie distinte (pag 5): SRP1 (“strutture per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere intensivo”); SRP2 (“strutture per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo”); SRP3 (“strutture per trattamenti socio-riabilitativi, a bassa intensità riabilitativa”).

La distinzione fra le tre tipologie è di puro carattere funzionale: riguarda le caratteristiche cliniche, la qualità dei programmi riabilitativi, ovvero: (pag 5 e 6) “numerosità e intensità degli interventi complessivamente erogati; il mix di tipologie diverse di interventi (individuali, di gruppo, terapeutici, riabilitativi, in sede, fuori sede, ecc); la numerosità e l’intensità degli interventi di rete sociale (famiglia, lavoro, socialità”

Non si fa alcun accenno a criteri strutturali (relativi ai requisiti abitativi) specifici, né distinti per SRP 1,2 e 3. Peraltro nessuna normativa nazionale sulla salute mentale (né il Progetto Obiettivo Nazionale Salute mentale del 1999, né il Piano d’Azioni Nazionale per la Salute Mentale del 2013) stabilisce alcuna correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa di una struttura e le sue caratteristiche strutturali-abitative.

Al contrario la DGR 30, nel definire i criteri in base ai quali le strutture potranno presentare istanza di autorizzazione all’esercizio e di accreditamento, privilegia i requisiti strutturali-abitativi a quelli clinico funzionali. Da questo punto di vista, contraddice il modello Agenas-Gism e conserva l’impostazione prevista dalla precedente DCR 357 del 1997.

 

LA DCR 357 del 1997

 

A differenza del modello Agenas-Gism, la DCR 357 mescolava requisiti strutturali-abitativi a requisiti funzionali. Prevedeva infatti l’esistenza di strutture con mandato terapeutico, ad elevata ed intermedia intensità, denominate comunità protette di tipo A e B rispettivamente; prescriveva per esse una capienza massima di venti posti e requisiti strutturali-abitativi para-ospedalieri , per quanto riguarda metratura, organizzazione degli spazi, impianti sanitari, accessibilità ai disabili, ecc: i medesimi previsti dalla normativa regionale per le residenze socio-assistenziali per anziani e disabili (RAF e RA), previste dalla Dgr 38 del 1992

Assegnava invece una funzione socio-sanitaria a bassa intensità alle strutture denominate “comunità alloggio”, anch’esse provviste di requisiti strutturali-abitativi di tipo para-ospedaliero (sempre normati dalla DGR 38 del 1992 relativa ai presidi per anziani e disabili) ma con una capienza più ridotta (massimo dieci posti). E assegnava una funzione socio-sanitaria, a bassa intensità riabilitativa, anche alle strutture di civile abitazione, prive di requisiti strutturali abitativi di tipo para-ospedaliero (denominate “gruppi appartamento”) e ancora più ridotte nella capienza (massimo cinque posti per ogni nucleo) .

In questo senso veniva stabilita una correlazione fra intensità terapeutica delle strutture e aspetti strutturali-abitativi: le strutture di più grandi dimensioni, e con caratteristiche di tipo para-ospedaliero, investite di una funzione terapeutica; quelle di più ridotte dimensioni (comunità alloggio) o di civile abitazione (gruppi appartamento) investite di una funzione socio-sanitaria, a bassa intensità terapeutica .

L’evoluzione delle struttura psichiatriche piemontesi dal 1997 ad oggi

A dispetto di quanto prevedeva sulla carta la DCR 357, la realtà effettiva delle strutture residenziali psichiatriche si è evoluta in modo assai più vario e complesso.

In particolare:

1 sono state aperte negli anni diverse strutture ad impostazione terapeutico-riabilitativa, non classificabili come comunità protette di tipo A e B ai sensi della 357, bensì come comunità alloggio e gruppi appartamento. Tale evoluzione è stata resa possibile dal fatto che la 357, pur definendole in modo generico come strutture a bassa assistenza, non prescriveva per esse alcun preciso standard di personale.

Sono nati gruppi appartamento e comunità alloggio che, dal punto di vista funzionale, (ore di copertura, profilo professionale degli operatori, tipologia degli tenti ospitati e durata degli interventi) possiedono standard analoghi o perfino superiori a quelli delle comunità protette.

SI è potuta così completare una vera e propria rete di strutture terapeutiche, con caratteristiche differenziate, anziché lasciarne il monopolio ad una singola tipologia di struttura (comunità protette di tipo A e B) di grandi dimensioni e con requisiti strutturali para-ospedalieri. La disponibilità di diverse opzioni terapeutiche residenziali (comprese strutture di dimensioni più ridotte e con caratteristiche di civile abitazione) permette infatti di realizzare meglio quei percorsi individualizzati di riabilitazione previsti dal Piano d’Azioni nazionale per la salute mentale del 2013 con la massima efficacia ed efficienza, come documentato della letteratura scientifica specializzata, e come si argomenterà meglio nei prossimi paragrafi.

2 Anche le comunità protette si sono sviluppate in maniera assai eterogenea: soprattutto le comunità protette di tipo B, di gran lunga le più numerose, i cui standard di personale minimi previsti dalla DCR 357 sono più ridotti (mentre non vengono definiti standard massimi né una retta standard).  Alcune CPB funzionano in realtà con standard e rette molto simili a quelli della CPA e svolgono quindi un’attività terapeutica ad intensità elevata: altre CPB funzionano con standard prossimi a quelli minimi previsti dalla normativa e hanno dunque un potenziale terapeutico molto più limitato; alcune si sono specializzate a svolgere una funzione prevalente di tipo assistenziale, con permanenza media degli utenti assai prolungata.

Nonostante questa eterogeneità funzionale la DGR 30 assegna in modo automatico le CPA alla categoria SRP1 e le CPB alla categoria SRP2.

Una corretta applicazione del modello Agenas Gism richiederebbe invece che l’attribuzione a una delle categorie SRP fosse decisa sulla base dell’analisi delle caratteristiche funzionali specifiche di ogni struttura. Tale analisi dovrebbe avvenire attraverso una fase di censimento funzionale delle strutture, che la DGR 30 non prevede, limitandosi a disporre una rivalutazione dei pazienti inseriti, in quella che definisce la “fase transitoria” (pag, 5) . Solo una successiva Dgr, di inizio settembre 2015, ha stabilito di affiancare alla valutazione dei pazienti anche una valutazione funzionale delle strutture, senza però prevedere un mutamento dei criteri di accreditamento, che continuano a basarsi solo sulle vecchie categorie ascrivibili alla DCR 357

Ma il semplice riferimento ai criteri della 357 non permette di discriminare fra le effettive caratteristiche funzionali delle strutture.

· L’unico requisito che distingue in modo oggettivo, come categoria, i gruppi appartamento dalle comunità protette è puramente strutturale-abitativo: le caratteristiche di civile abitazione.

· Nessun criterio oggettivo, ai sensi della 357, neppure strutturale-abitativo, permette di distinguere fra le comunità protette di tipo B con funzione terapeutica più intensiva, meno intensiva o con orientamento assistenziale.

 

La normativa nazionale sui LEA

 

La principale normativa nazionale che definisce i livelli essenziali di assistenza è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001. Il riferimento specifico alla residenzialità psichiatrica è contenuto  nell’allegato 1, punto 1.c, pag 38, che considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. Anche in questa norma non viene fatto alcun riferimento a requisiti strutturali-abitativi, né si parla di gruppi appartamento o di caratteristiche di civile abitazione. Il criterio che identifica le strutture escluse dai LEA è puramente funzionale: “strutture a bassa intensità assistenziale”.

L’interpretazione che la DGR 30 fa di questo passaggio è che si debba considerare a bassa assistenza qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la DCR 357 del 1997.

Si tratta di un’affermazione in contrasto con la realtà, come argomentato nel paragrafo precedente. Non è sufficiente, infatti, limitarsi a quanto la DCR 357 prescriveva in astratto per i gruppi appartamento, definiti come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”(pag 13); fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti in effetti di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

Occorre invece riferirsi allo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi, a come essi funzionano nella realtà: agli effettivi requisiti funzionali (tipologia degli utenti inseriti, numero di ore di copertura, profilo professionale degli operatori, orientamento clinico degli interventi, durata degli inserimenti). Tali caratteristiche sono facilmente verificabili, poiché, pur in assenza di un formale accreditamento, la gran parte dei gruppi appartamento ha un rapporto contrattualizzato con le Asl invianti, il che consente di controllare in modo dettagliato tutti i requisiti funzionali.

Dal censimento funzionale emergerà che per molte delle strutture classificate come gruppi appartamento ai sensi della DCR 357,  la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile, poiché, secondo il DPCM 29/11/2001 devono considerarsi a totale carico del servizio sanitario nazionale, le strutture che (quali che siano i loro requisiti strutturali-abitativi, che il Dpcm non cita) possiedono un chiaro e inequivoco orientamento riabilitativo. Sarebbe facile verificare che la maggior parte dei GA ad orientamento riabilitativo soddisfa almeno i criteri definiti dalla Conferenza Unificata in riferimento alle SRP2, per quanto riguarda (pag. 8):

·  la tipologia degli utenti (“pazienti con compromissioni del funzionamento personale e sociale gravi, o di gravità moderata, ma persistenti e invalidanti”, per i quali si ipotizzano ulteriori possibilità evoljutive)

· la tipologia dei programmi di trattamento (“trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo, da attuare in programmi a media intensità riabilitativa, anche finalizzati a consolidare un funzionamento adeguato alle risorse personali”)

· la prevalenza di personale sanitario (équipes multidisciplinari, con figure sanitarie come educatori, terapisti della riabilitazione, psicologi, infermieri)

· la definizione standardizzata di una durata massima del programma, con l’obiettivo di far evolvere il paziente verso situazioni di maggiore autonomia, oppure verso contesti assistenziali o riabilitativi di mantenimento (SRP3)

Il DPCM del 29/11/2001, (introduzione all’Allegato 1 sezione C) esclude dai LEA solo le “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale” ovvero le  “prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili”.

Tale definizione non si può applicare alle strutture residenziali psichiatriche che svolgono una prevalente funzione riabilitativa, poiché l’orientamento riabilitativo comporta una chiara e  inequivoca natura sanitaria.

Infatti lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M, include fra le prestazioni a carico totale del SSN tutte le prestazioni di riabilitazione psichiatrica e, in particolare, a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

La definizione “strutture a bassa intensità assistenziale”si compone di due elementi:

1 “assistenziale”, elemento qualitativo, che fa riferimento alla categoria di intervento  (assistenziale in quanto distinto da terapeutico e riabilitativo)

2) “bassa intensità”, elemento quantitativo.

Il criterio qualitativo, ovvero l’orientamento assistenziale e non terapeutico-riabilitativo degli interventi, è quello più rilevante, poiché solo agli interventi di tipo assistenziale può essere attribuito il requisito richiesto dal DPCM  “prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili”. Nella letteratura psichiatrica e medica, per interventi assistenziali si intendono infatti interventi non mirati a modificare o correggere le disfunzioni legate ad una patologia, ma semplicemente di tipo sostitutivo, per disabilità considerate immodificabili, che richiedono quindi un sostegno a tempo indeterminato di natura socio-assistenziale (United States Association for Psychiatric Rehabilitation; Piano d’Indirizzo per la Riabilitazione, Conferenza Stato-Regioni, 2011)

Al criterio qualitativo “assistenziale” deve aggiungersi il criterio quantitativo (ridotti standard di personale e di copertura)

La DCR 23 dicembre 2013, n. 260 – 40596, che ha recepito l’accordo concernente le strutture residenziali psichiatriche approvato in data 17 ottobre 2013 dalla Conferenza unificata, fornisce criteri molto chiari per individuare le strutture con caratteristiche qualitative di tipo assistenziale e quantitative di bassa intensità. Si tratta delle SRP3 di tipo 3, che si caratterizzano per:

o la tipologia dei pazienti (“pazienti clinicamente stabilizzati, che presentano bisogni riabilitativi prevalentemente orientati alla supervisione e nella pianificazione e nella verifica delle attività della vita quotidiana”)

o la tipologia degli interventi (“programmi socio riabilitativi a bassa intensità riabilitativa con prevalenza di attività di assistenza e risocializzazione”, e dunque prevalenza di figure professionali a carattere assistenziale: Oss, colf)

o la non definizione standardizzata di una durata massima dell’intervento, se non quella prevista dal Progetto Terapeutico Riabilitativo Personalizzato

o la bassa copertura oraria da parte degli operatori (“assistenza garantita solo in alcune fasce orarie diurne”)

Si possono dunque definire strutture a bassa intensità assistenziale quelle che, indipendentemente dall’inquadramento strutturale secondo la DCR 357 del 1997, come gruppi appartamento, comunità alloggio o appartamenti supportati,  possiedano i seguenti requisiti organizzativi: tipologia di utenti e caratteristiche funzionali delle SRP3 con copertura oraria per fasce (inferiore alle 12 ore giornaliere)

Strutture con tali caratteristiche esistono, ma sono solo una ridotta percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte (quale percentuale precisamente dovrebbe emergere dal censimento funzionale, che la DGR 30 non ha previsto).

Le decisione della DGR 30 di considerare indiscriminatamente tutti i gruppi appartamento come strutture extra lea è in palese violazione della normativa nazionale sui livelli essenziali di assistenza, anche per quanto riguarda i principi generali, definiti dal decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229.

In particolare all’art 1 comma 7 del decreto legislativo  si legge: “Sono posti a carico  del  Servizio  sanitario  le  tipologie  di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano,  per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un  significativo  beneficio  in  termini  di   salute,   a   livello individuale o collettivo, a  fronte  delle  risorse  impiegate.  Sono esclusi dai livelli di  assistenza  erogati  a  carico  del  Servizio sanitario nazionale le  tipologie  di  assistenza,  i  servizi  e  le prestazioni sanitarie che:

a) non rispondono a necessita’  assistenziali  tutelate  in  base  ai principi ispiratori del Servizio sanitario  nazionale  di  cui  al comma 2;

b) non soddisfano il principio dell’efficacia e  dell’appropriatezza, ovvero la cui efficacia non e’ dimostrabile in base alle  evidenze scientifiche disponibili o sono utilizzati  per  soggetti  le  cui condizioni   cliniche   non   corrispondono    alle    indicazioni raccomandate;

c) in presenza di altre forme di assistenza  volte  a  soddisfare  le medesime esigenze, non soddisfano il  principio  dell’economicita’ nell’impiego  delle  risorse,  ovvero  non  garantiscono  un uso efficiente delle risorse quanto a modalita’ di  organizzazione  ed erogazione dell’assistenza”.

In merito al primo criterio (rispondere o meno a necessità assistenziali che facciano riferimento ai principi ispiratori del  Servizio sanitario Nazionale) riteniamo perfino superfluo doversi dilungare: avendo i gruppi appartamento, come e più delle comunità protette, lo scopo di prevenire l’istituzionalizzazione e l’emarginazione sociale, attraverso il miglioramento delle competenze socio-relazionali, colpite in modo specifico dalla patologia psichiatrica, la corrispondenza appare ovvia e lampante.

Rispetto al secondo criterio, l’esistenza di un’evidenza di efficacia, non esiste alcun dato in letteratura che dimostri la superiore efficacia clinica di strutture dotate di requisiti strutturali di tipo para-ospedaliero, rispetto a quelle collocate in contesti di civile abitazione. Le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di terapeuticità delle strutture leggere, di piccole dimensioni, e in contesto di civile abitazione, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali. I programmi terapeutico-riabilitativi che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Centri di salute mentale, si accordano al massimo grado con le definizioni ufficiali della letteratura internazionale, secondo la quale la riabilitazione psichiatrica ha lo scopo di  fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009)

I gruppi appartamento che funzionano come strutture residenziali terapeutiche di civile abitazione, sono molto meno colpiti da stigma e  pregiudizio sociale e sono più graditi da utenti e famiglie.

Un principio cardine non solo della letteratura scientifica, ma di tutta la normativa nazionale vigente (dalla legge 180, al Progetto obiettivo per la salute mentale, al Piano d’azioni nazionale per la salute mentale del 2013) è che il benessere e le abilità per vivere nella società non si recuperano fuori dal mondo, in istituzioni di tipo para-ospedaliero, ma all’interno del normale tessuto sociale.

L’altro fattore specifico di terapeuticità delle strutture leggere è il numero più ridotto di utenti (da 5-6 a 10-12) che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo

Per quanto riguarda il terzo criterio, relativo all’economicità, è facile dimostrare che le strutture di civile abitazione, a parità di requisiti funzionali e di personale, sono più economiche delle comunità protette di tipo A e B, perché di più piccole dimensioni e meno gravate da pesanti requisiti strutturali.

Proprio per ragioni economiche le strutture di civile abitazione si possono più facilmente realizzare nei centri urbani, mentre i grandi complessi strutturali necessari ad ospitare le comunità protette di tipo A e B trovano collocazione in genere in contesti extra-urbani.  Se la funzione terapeutica fosse rimasta confinata alle comunità protette, sarebbe stato impossibile, soprattutto nei centri urbani medi e grandi, realizzare reti di prossimità fra strutture riabilitative e progetti di domiciliarità integrati, con diversi livelli di intensità e protezione (“Residential Array”, o “gamma residenziale”, secondo la terminologia della letteratura internazionale)

Dove ciò è avvenuto, sono state possibili dimissioni progettuali ed evolutive dalle strutture residenziali, accompagnando gradualmente i pazienti verso una reale autonomia (progetti territoriali di domiciliarità) o verso situazioni di stabilità clinica, per le quali possono essere utili, anche a medio-lungo termine, i gruppi appartamento di taglio più assistenziale (SRP3 secondo la Conferenza Unificata)

Al contrario, dove non è stata realizzata una rete intermedia di gruppi appartamento di tipo terapeutico, è spesso impossibile colmare il divario fra l’elevata protezione delle strutture comunitarie, gli appartamenti a bassa protezione, e il trattamento ambulatoriale ordinario,  il che ha reso problematiche le dimissioni, gonfiando i costi della residenzialità psichiatrica.

La residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono quindi i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti. Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione. Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Infine, alla definizione del concetto di LEA in salute mentale contribuisce anche il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, secondo il quale deve essere inteso come: “percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”.

I gruppi appartamento con valenza terapeutica sono da considerarsi LEA anche perché non sono realtà a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. (Corrigan e colleghi, Principles and Practice of Psychiatric Rehabilitation: An Empirical Approach, già citato)

Il confronto con altre normative regionali

Nessuna normativa nazionale obbliga le Regioni a stabilire requisiti strutturali di tipo para-ospedaliero per le strutture residenziali psichiatriche, nemmeno per quelle ad alta ed intermedia intensità riabilitativa e a totale carico della sanità.

Il cosiddetto “Decreto Bindi” (Decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997 “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attivita’ sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private”) consente, a livello nazionale, (pag 14) il funzionamento di qualunque struttura residenziale psichiatrica, fino a dieci posti, in contesto di civile abitazione, senza alcun requisito strutturale aggiuntivo, a parte la seguente, generica indicazione: “organizzazione interna che consenta sia gli spazi e i ritmi della normale vita quotidiana, sia le specifiche attività sanitarie, con spazi dedicati per il personale, per i colloqui e per le riunioni”

Diverse Regioni italiane attuano tale indirizzo alla lettera. Ad esempio, la Toscana autorizza l’esercizio di strutture, a prescindere dall’intensità terapeutica (sia le SR Terapeutico-riabilitative, sia le SR Socio-riabilitative, ad alta e bassa intensità assistenziale) in contesti di civile abitazione fino a dieci posti. Lo stesso fa il Lazio, in riferimento a due tipologie residenziali, a orientamento terapeutico e assistenziale: rispettivamente SRTR (Strutture residenziali terapeutico-riabilitative) e  SRSR (Strutture residenziali socio-riabilitative) semplici requisiti di civile abitazione fino a dieci posti letto. Anche la normativa della Lombardia prevede che sia le strutture ad alta e media intensità riabilitativa (CRA e CRM) sia quelle protette ad orientamento assistenziale (CPA e CPM), tutte a totale carico della sanità,  possano trovare collocazione in contesti di civile abitazione, fino a dieci posti letto.

Altre Regioni consentono l’esercizio di strutture residenziali psichiatriche in contesti di civile abitazione anche oltre il limite dei dieci posti. Ad esempio l’Emilia Romagna prevede requisiti di civile abitazione, con pochi requisiti aggiuntivi di buon senso (“almeno un servizio ogni quattro ospiti e almeno il dieci per cento di stanze singole” ) sia per le strutture intensive (RTI) che per quelle riabilitative estensive (RTR) fino a 20 posti. Il Veneto prevede per le CTRP (Comunità Terapeutica Riabilitativa Protetta) ad alta e intermedia intensità, da 12 a 20 posti, requisiti di civile abitazione, purché garantiscano: “almeno un bagno ogni quattro pazienti, almeno 20 metri quadri a paziente, e opportune forme di evacuazione individuate le vie di fuga in ragione del rischio equivalente alla collocazione abitativa”. La Puglia prevede per le Comunita’ riabilitative a elevata intensita’ assistenziale, da dodici a sedici posti, e per le Comunita’ riabilitative a media intensita’ assistenziale, da dodici a venti posti, requisiti di civile abitazione, e in più “superficie minima delle camere  non inferiore a sei metri quadri per posto letto, per ogni  camera a piu’ letti, almeno nove metri quadri per le camere singole; un bagno ogni quattro utenti; una cucina piastrellata sino a 2 metri di altezza a partire da terra”.

Come si vede, nessuna di queste normative prevede, neanche per strutture di ampie dimensioni,  con mandato terapeutico e a totale carico della sanità, pesanti requisiti strutturali para-ospedalieri.

Risulta perciò incomprensibile, sulla base della legislazione vigente, e inaccettabile, dal punto di vista dei principi della riabilitazione psichiatrica, che la DGR 30 preveda non solo l’esclusiva degli interventi terapeutici alle strutture con requisiti  para-ospedalieri, ma anche requisiti strutturali aggiuntivi assai onerosi per le strutture di civile abitazione. In particolare (art 4.1 pag 32): “servizio igienico accessibile ai soggetti disabili”; collocazione “possibilmente ai piani bassi degli edifici; se collocate al primo piano devono essere raggiungibili con idonea attrezzatura, se collocate ai piani superiori devono essere raggiungibili con ascensore”; “possedere i requisiti di adattabilità di cui all’art. 6 del D.M. n. 236/89 in termini di abbattimento delle barriere architettoniche”; “prevedere, in caso di presenza del personale socio-sanitario superiore alle 7 ore giornaliere, la presenza di un locale ad esclusivo uso del personale”; “disporre di un sistema di rilevazione delle presenze per tutto il personale operante nella struttura”.

SI tratta di requisiti utili in un ospedale o in un ambulatorio, ma del tutto fuori luogo in un contesto che deriva la sua specificità terapeutica dall’essere una normale abitazione, inserita nel normale contesto sociale; indispensabili per pazienti con disabilità motorie o anziani, ma inutili e anzi controproducenti per i pazienti psichiatrici (nella stragrande maggioranza dei casi giovani, in buone condizioni fisiche e assai sensibili all’effetto stigmatizzante dell’essere equiparati a generici “disabili”).

 

Il fabbisogno di “posti letto”

 

La DGR 30 indica come riferimento per l’individuazione dello standard ottimale di “posti letto” di residenzialità psichiatrica il Progetto Obiettivo Nazionale del 1999 che prevede un posto  ogni 5000 abitanti. Tale riferimento risulta assai discutibile per varie ragioni:  non è esplicitato su quali dati scientifici si fondi; risale a circa sedici anni fa e non tiene conto dell’evoluzione dell’assistenza psichiatrica residenziale avvenuta nel frattempo; gli standard funzionali che lo stesso Progetto Obiettivo  prevede per le diverse articolazioni dei dipartimenti di salute mentale (centro di salute mentale, centro diurno, day hospital) sono ampiamente disattesi al ribasso, per quanto riguarda aspetti fondamentali come le dotazioni di personale e gli orari di apertura, e non capisce per quale ragione venga lamentato come anomalo solo il presunto esubero di posti residenziali.

Il primo studio quantitativo condotto con modalità scientifiche sulla residenzialità psichiatrica italiana (lo Studio Progres del 2000, già citato)  identificava un tasso di 2,98 posti ogni diecimila abitanti , quindi già al di sopra di quelli previsti dal Progetto Obiettivo, ma segnalava differenze di dieci volte fra Regioni diverse. Una analoga eterogeneità viene segnalata dalla DGR 30 in diversi territori della Regione Piemonte nel 2014; queste differenze non hanno tuttora trovato una valida spiegazione, né a livello nazionale né a livello regionale, ma non si può escludere che un corretto censimento funzionale potrebbe aiutare a comprenderle meglio.

Anche a questo scopo sarebbe fondamentale distinguere fra strutture con caratteristiche funzionali differenti, anziché considerare tutti insieme i “posti letto” residenziali, come se si trattasse di posti letto ospedalieri, ovvero strutture equivalenti. La necessità di garantire una “gamma” di opzioni residenziali, invocata dalla letteratura scientifica, e “percorsi di cura integrati”, previsti dalle normative nazionali vigenti (in particolare il Piano d’Azioni Nazionale per la salute mentale del 2013), fa sì che esistano strutture fra di loro complementari, che non possono essere considerate nello stesso insieme .

In particolare, le strutture “leggere” costituiscono un’alternativa a quelle “pesanti”, o, più spesso, fasi successive dello stesso percorso, indicate per pazienti diversi. In più, come già sottolineato, per ragioni del tutto fisiologiche, le comunità protette hanno maggiori probabilità di trovarsi in contesti extraurbani, quelle di civile abitazione in contesti urbani; queste ultime devono quindi, giocoforza, in molti casi assumere una connotazione terapeutica per comporre le necessarie reti integrate di prossimità.

Per tutte queste ragioni riteniamo del tutto inadeguata l’impostazione della DGR 30, che, per definire il fabbisogno, da una parte si riferisce ad astratti standard nazionali; dall’altra si limita a fotografare l’esistente, senza comprenderlo, attribuendo funzioni terapeutiche a una parte delle strutture solo perché già accreditate come CPA e CPB, nonostante il forte squilibrio di diffusione fra territori diversi, che pure lo stesso documento lamenta (in alcuni zone del Piemonte esiste una concentrazione di comunità protette, in altre zone sono quasi assenti); e disconoscendo il ruolo terapeutico di altre strutture, che pure lo esercitano da anni,  sulla base di irrilevanti motivazioni strutturali e burocratiche (l’avere caratteristiche di civile abitazione e il non avere ancora ricevuto un formale accrediamento).

La conseguenza degli errori di impostazione descritti non potrà che essere lo smantellamento indiscriminato della residenzialità piemontese, anziché la sua razionalizzazione ed efficientamento.

PERCHE’ CIVILI ABITAZIONI?

PERCHE’ CIVILI ABITAZIONI?

Dal presunto accreditamento al reale azzeramento 

di un dispositivo riabilitativo di provata efficacia

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Introduzione

La D.G.R. n. 30-1517 prodotta dalla Giunta Regionale del Piemonte nel luglio del 2015, come dimostreremo in seguito, di fatto estirpa la caratteristica principale dei Gruppi Appartamento, d’ora in poi denominati GA, ossia quella di essere delle civili abitazioni, normali case come quelle in cui chi scrive e chi legge vivono ed abitano. Contrariamente alle indicazioni della letteratura nazionale ed internazionale, e con interpretazioni dubbie e distorte di leggi e normative citate nella delibera, per ottenere accreditamento ed autorizzazioni i GA verrebbero resi simili più a strutture para-ospedaliere dal sapore manicomiale piuttosto che a “normali” case in cui poter prendersi cura di sé in un contesto pienamente immerso nella società civile.

La letteratura scientifica Nazionale ed Internazionale e le Normative

Perché è fondamentale per la cura e riabilitazione di un paziente psichiatrico la possibilità di sperimentarsi in una abitazione “normale” definita “civile abitazione” situata in un contesto cittadino in mezzo alle altre persone? I suggerimenti e le ricerche prodotte negli anni ci danno molti indizi a favore di ciò:

1) Piano d’Azione Nazionale per la Salute Mentale 2013

[..] Sono due i principi guida da applicare:

  1. privilegiare la metodologia di “partire dal basso”, valorizzando le buone pratiche esistenti a livello locale, oltre che regionale, favorendo il confronto, l’accreditamento tra pari e le forme di collaborazione
  2. assumere come cornice di riferimento la “psichiatria e neuropsichiatria infantile di comunità”, promuovendo e rilanciando il lavoro nel territorio.

Compito del DSM che assume la titolarità di un percorso di presa in carico, correlata ad una prassi

orientata alla continuità terapeutica, è garantire alcuni requisiti:

  • supporto complessivo in tutto il percorso del paziente (interventi territoriali, ospedalieri, di

emergenza/urgenza, residenziali e semiresidenziali – fra questi i GA- ndr).

2) Linee Guida Ministeriali per la Salute Mentale 2012 (linee di indirizzo nazionali per la salute mentale)

Punto D- sezione sostegno abitativo: residenzialità e domiciliarità si sostiene di “[..] riaffermare i principi espressi dal Progetto Obiettivo 1998-2000, le strutture residenziali devono essere differenziate in base all’intensità dell’assistenza e [..] deve essere centrale il progetto personalizzato incentivando, promuovendo il sostegno abitativo e case di piccole dimensioni[..]

Fra gli obiettivi conseguenti indicano le linee guida “la dimensione delle case, la loro struttura organizzativa e grado di protezione non possono essere definiti in modo rigido, devono essere invece elastici e ricchi di determinate opzioni[..] In questo senso vanno privilegiate strutture di civile abitazione[..]”

Fra gli indirizzi operativi punto 3: Vanno riconosciute, valorizzate e promosse tutte quelle esperienze che si possono indicare come sostegno abitativo, ovvero i gruppi appartamento[..]

3) Conferenza unificata Stato Regioni 2013

Nelle tabelle di sintesi indica fra i Percorsi di Cura, nell’ambito dei programmi innovativi di intervento da attivare anche le forme di residenzialità leggera, intendendo proprio i GA, e riprendendo le linee guida di cui sopra.

 4) Piano d’azione sulla salute mentale per l’Europa (Helsinki 2005)

[..]Nel ventunesimo secolo non c’è posto per trattamenti e cure inumane e degradanti nelle grandi istituzioni: un numero sempre crescente di paesi ha chiuso la maggior parte dei propri ospedali psichiatrici e sta attualmente realizzando efficaci servizi di comunità.

[..] – Fra le azioni individuate ndr – Sviluppare servizi di riabilitazione che mirino a migliorare l’inclusione delle persone nella società[..]

5) Libro Verde della Commissione Europea 2006

[..]Uno studio della Commissione, dal titolo Included in Society (società inclusiva) ha confermato che la sostituzione degli istituti con alternative a livello locale offre in genere possibilità di una migliore qualità di vita per le persone.

6) La legge 180 successivamente succinta nella legge 833/1978 e i successivi provvedimenti legislativi del settore le leggi 118/1971 e 517/1977 – centrate in prevalenza sulla scuola, l’handicap e l’integrazione scolastica ndre la L.104/1992 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.)

6.1) L.833/1978 – Art. 2 Obiettivi – punto g) la tutela della salute mentale privilegiando il momento preventivo e inserendo i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione pur nella specificità delle misure terapeutiche, e da favorire il recupero ed il reinserimento sociale dei disturbati psichici.- Si apre la strada al concetto di inclusione sociale che verrà pienamente sviluppato e descritto negli anni a seguire fino ai giorni nostri ndr.

6.1.1) Art. 64 Norme transitorie per l’assistenza psichiatrica [..]La regione nell’ambito del piano sanitario regionale, disciplina il graduale superamento degli ospedali psichiatrici o neuropsichiatrici e la diversa utilizzazione, correlativamente al loro rendersi disponibili, delle strutture esistenti e di quelle in via di completamento[..] – Si apre la strada alle strutture intermedie e territoriali, fra cui anche i GA ndr –

7.2) L.104 05/02/1992

7.2.1) Art. 1 – Finalità 1. La Repubblica: a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata – sono inclusi i disabili psichici ndr – e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività[..]-Tornano i temi di inclusione sociale ed autonomia da ricercarsi nella società “normale”che trovano piena dichiarazione nell’articolo 5 punto m ndr –

7.2.2) Art.5 – Principi generali per i diritti della persona handicappata.

  1. m) promuovere il superamento di ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale anche mediante l’attivazione dei servizi previsti dalla presente legge.

 8) La Dgr n.357–1370 del 28 gennaio1997 al capoverso Gruppi Appartamento

 [..]Nell’ambito del recepimento del progetto obiettivo “Tutela della salute mentale 1994/96” di cui al D.P.R. 7.4.1994, lett. D), comma 12, (Decreto peraltro successivo alla L.R. 61189) si ritiene sia indispensabile costituire Gruppi Appartamento (G.A.) quali soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare[..]

Ed ancora ndr– [..] I requisiti strutturali e tecnologici sono quelli dell’edilizia residenziale pubblica

e/o dell’edilizia convenzionata avendo cura che: – ogni paziente possa usufruire di un suo spazio; – gi appartamenti siano localizzati ai piani bassi per una facile accessibilità; – ogni stanza non abbia più di due posti letto.

Risulta evidente nell’unico vero riferimento normativo che descrive come devono essere i GA, che gli si attribuisce una caratteristica non istituzionalizzante, di piena normalità all’interno di contesti urbani. La riabilitazione, come abbiamo visto può e deve avvenire in mezzo alle persone normali e non entro confini rigidi di istituzioni simili ai vecchi manicomi. Tutte le indicazioni normative e scientifiche ante dgr 30 ci dicono in buona sostanza questo!

La D.G.R. n. 30-1517 con le sue incongruenze e passi indietro

La delibera di cui si va discutendo cancella il termine Gruppo Appartamento e fa confluire tutti quelli esistenti nella definizione S.R.P.3 (Struttura Residenziale Psichiatrica per interventi socio-riabilitativi, con differenti livelli di intensità assistenziale.) e li articola in tre tipologie. E’ chiaro il riferimento, peraltro dichiarato in modo esplicito, al modello AGENAS-GISM.

Fin qui poco male, anche se si sostituiscono alle parole GRUPPO e APPARTAMENTO, tipiche della normale partecipazione alla collettività, quelle di STRUTTURA RESIDENZIALE, tipica invece delle istituzioni simil-ospedaliere. Questa critica “culturale” rimarrebbe fine a se stessa se la delibera non procedesse ancora nella dimensione istituzionalizzante, come vedremo in seguito, proprio all’opposto di quello che leggi e studi scientifici ci dicono.

E le civili abitazioni?

A Pagina 32 dell’Allegato alla DGR 30 4. Requisiti specifici per l’esercizio e l’accreditamento

4.1 – Requisiti specifici per l’esercizio – Strutturali

[..]Tali strutture devono avere le seguenti caratteristiche:

Rispondere ai requisiti previsti per una civile abitazione ed essere in possesso dell’agibilità, nel rispetto di tutte le caratteristiche strutturali e tecnologiche dell’edilizia residenziale;

– Essere costituiti da un massimo di 2 nuclei abitativi, ogni camera non deve ospitare più di 2 posti letto e la struttura deve essere dotata di almeno un servizio igienico ogni 4 utenti (il servizio deve essere completo e accessibile ai soggetti disabili);

– Essere localizzati possibilmente ai piani bassi degli edifici; se collocate al primo piano devono essere raggiungibili con idonea attrezzatura, se collocate ai piani superiori devono essere raggiungibili con ascensore;

– Essere localizzati nel contesto residenziale urbano, in una strada a viabilità ordinaria, facilmente raggiungibile con i mezzi propri e comunque non inseriti all’interno di strutture residenziali sanitarie e/o sociosanitarie e/o socio-assistenziali;

– Prevedere uno spazio dedicato per colloqui e riunioni oltre che possedere i requisiti di adattabilità di cui all’art. 6 del D.M. n. 236/89 in termini di abbattimento delle barriere architettoniche;

– Prevedere, in caso di presenza del personale socio-sanitario superiore alle 7 ore giornaliere, la presenza di un locale ad esclusivo uso del personale;

– Disporre in struttura, oltre ai locali destinati ad uso letto, di un locale cucina ed un locale soggiorno o locale lettura usufruibile da tutti gli utenti, di dimensioni adeguate al numero di posti letto disponibili;

– Disporre di un sistema di rilevazione delle presenze per tutto il personale operante nella struttura

La dgr 30 va molto oltre la dgr 357 in merito ai requisiti strutturali e continua a definire civili abitazioni i GA o SRP3 ma introducendo elementi di separazione dal mondo e connotazione istituzionalizzante viepiù crescenti, come si può osservare se aggiungiamo ai requisiti specifici per l’esercizio e l’accreditamento delle SRP3 quelli trasversali a tutti i tipi di residenzialità ossia.

In particolare a pagina 9 del succitato allegato troviamo i:

5.1 Requisiti trasversali per l’autorizzazione all’esercizio -Strutturali e tecnologici

I requisiti strutturali e tecnologici per l’esercizio delle strutture sociosanitarie psichiatriche, anche in linea con quelli disciplinati dalla D.C.R. n. 616 – 3149 del 22 febbraio 2000, riguardano il possesso da parte dell’ente gestore dei seguenti requisiti:

– Titolo di godimento dell’immobile: il soggetto gestore è tenuto a dichiarare il titolo di godimento dell’immobile destinato all’attività, gli eventuali vincoli gravanti sullo stesso e la compatibilità dell’attività con eventuali vincoli esistenti sull’immobile stesso;

– Possesso dei requisiti previsti dalle vigenti leggi in materia di:

o Agibilità;

o Protezione antisismica;

o Protezione antincendio;

o Protezione acustica;

o Sicurezza elettrica e continuità elettrica;

o Sicurezza anti infortunistica;

o Igiene dei luoghi di lavoro;

o Protezione dalle radiazioni ionizzanti;

o Smaltimento rifiuti;

o Condizioni microclimatiche;

o Impianti di distribuzione dei gas;

o Materiali esplodenti.

– Organizzazione e arredamento dei locali: rispetto delle condizioni igieniche, costruttive ed abitative necessarie per lo svolgimento dell’attività, arredamento dei locali in linea con i requisiti di razionalità, le condizioni d’uso e l’effettuazione manutenzione periodica;

– Organizzazione degli spazi pubblici e privati: organizzazione dei locali interni alla struttura in modo da permettere la vivibilità della struttura da parte di tutti gli utenti sia nei luoghi di condivisione che nei locali privati.

Ed ancora a pagina 12 e seguenti sono elencati i:

5.2 Requisiti trasversali per l’accreditamento –Strutturali

In linea con quanto stabilito dalla D.G.R. n. 63 – 12253 del 28 settembre 2009 i requisiti strutturali trasversali per l’accreditamento delle strutture residenziali psichiatriche (S.R.P.1 / S.R.P.2 e S.R.P.3) sono i seguenti:

– Avere una localizzazione idonea ad assicurare l’integrazione e la fruizione degli altri servizi del territorio;

– Rispondere ai requisiti previsti nella vigente normativa in ordine alla eliminazione delle barriere architettoniche;

– Svolgere un’attività di rete con gli altri servizi del territorio, in modo da favorire l’integrazione dei pazienti con la comunità locale;

– Essere localizzati preferibilmente nel cuore degli insediamenti abitativi o comunque in una soluzione idonea a garantire una vita di relazione, anche mediante l’utilizzo delle infrastrutture presenti sul territorio (es. piscine, cinema, ecc.), al fine di favorire il reinserimento sociale del paziente psichiatrico, una volta stabilizzato;

– Garantire la possibilità di raggiungere facilmente la struttura con l’uso dei mezzi pubblici e privati per garantire la continuità e la frequenza delle visite dei familiari e conoscenti;

– Prevedere una personalizzazione delle stanze con arredi di tipo non ospedaliero;

– Essere organizzati in modo da garantire l’assenza di ostacoli fisici (es. arredi o terminali degli impianti) negli spazi di transito che possono impedire agli utenti e agli operatori di potersi muovere in sicurezza, anche in caso di emergenza e/o pericolo;

– Essere organizzati in modo da limitare il più possibile i rischi derivanti da condotte pericolose messe in atto dai soggetti ospitati in momenti di crisi (es.: entrate/uscite sorvegliate, limitazione o controllo dell’accesso a locali e/o aree pericolose);

– Prevedere una segnaletica interna semplice, localizzata in punti ben visibili, chiara, con caratteri di dimensioni tali da poter essere letti anche da chi ha problemi di vista con un buon contrasto rispetto allo sfondo;

– Prevedere nell’ingresso della struttura la presenza di uno schema che spieghi in modo chiaro e semplice la distribuzione degli spazi della stessa;

– Garantire l’adeguamento alle norme previste dal testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui al D.Lgs. n. 81 del 9 Aprile 2008 e D.Lgs. n. 106 del 3 Agosto 2009. Il possesso di tale requisito deve essere attestato nell’ambito di un’apposita relazione tecnica redatta da un professionista abilitato;

– Prevedere all’interno della struttura un sistema di rilevazione di presenza del personale.

In buona sostanza alcuni di questi requisiti all’esercizio ed all’accreditamento richiesti in modo trasversale ed in modo specifico per i GA/SRP3 dalla dgr 30 sono sacrosanti.

Altri fanno fare un balzo indietro alla cura dei pazienti psichiatrici di più di 40 anni e sono completamente insensati oltreché emanati mal interpretando norme e leggi esistenti ad altro riferite.

Fatta eccezione per la Delibera del Consiglio Regionale 28 gennaio 1997, n.357 –1370 che definiva i requisiti strutturali e tecnologici (si veda a pagina 2, punto 5 del presente documento), le aggiunte della Dgr 30 sono state mutuate intonse dalle normative relative a strutture ben più “pesanti” causando i danni di cui abbiamo già accennato.

Nella tabella che segue proveremo a dimostrare con chiarezza come questo sovra-accreditamento non giustificato ne necessario, produrrà l’immediata decadenza del concetto di civile abitazione e spingerà gli enti gestori e le ASL verso “strutture” che inevitabilmente assomiglieranno di più alle RSA o ai padiglioni ospedalieri che a “normali” case in cui ricevere aiuto.

In buona sostanza ci si allontana dall’inclusione sociale verso nuove (o molto vecchie) forme di isolamento ed esclusione. Tutto ciò a livello clinico produce aggravamento e cronicizzazione piuttosto che autonomia e riabilitazione, come detto in precedenza e riportato in tutte le fonti scientifiche citate e non.

Effettueremo un esame dei criteri strutturali per esercizio ed accreditamento prendendo in considerazione unicamente quelli che deformano il concetto di civile abitazione.

Il confronto terrà conto delle norme in merito all’edilizia civile e mostrerà la somiglianza che si vuol creare fra i “nuovi” GA e le Case di riposo o Istituzioni simili. Somiglianze che come detto stravolgono il senso inclusivo e destigmatizzante proprio della Legge Basaglia.

Requisiti trasversali per l’autorizzazione all’esercizio

Strutturali e tecnologici

Definizione
Protezione antisismica; Spesso confusa con la semplice agibilità/abitabilità, la protezione antisismica (Norme Tecniche per le Costruzioni, 2008) ha a che fare anche con la valutazione della sicurezza sismica di edifici esistenti, che comporta normalmente un grado di incertezza maggiore rispetto al caso di edifici di nuova costruzione. Strumenti ne sono l’indagine storico-critica, il rilievo sia geometrico che strutturale, la corretta caratterizzazione delle proprietà meccaniche dei materiali, la definizione di livelli di conoscenza e quindi dei fattori di confidenza conseguenti e la definizione delle sollecitazioni e nelle analisi strutturale idonee a cogliere i reali comportamenti degli edifici: Il tutto correlato alla appartenenza o meno a zone a rischio sismico diverse, individuate regione per regione.
Protezione dalle radiazioni ionizzanti Le radiazioni ionizzanti sono quelle radiazioni dotate di sufficiente energia da poter ionizzare gli atomi o le molecole con i quali vengono a interagire. Le professioni a maggior rischio di esposizione riguardano i settori:

  • sanitario: radiologi, radioterapisti, medici nucleari ecc.;
  • minerario: minatori;
  • militare: addetti alla sperimentazione di armi atomiche, personale a bordo di sommergibili atomici ecc.;
  • energetico: addetti alle centrali elettronucleari
Impianti di distribuzione dei gas Le norme si riferiscono in particolare agli impianti di distribuzione dei gas medicali ossia: “ogni medicinale costituito da una o più sostanze attive gassose miscelate o meno ad eccipienti gassosi”
Materiali esplodenti L’elenco degli esplosivi riconosciuti e classificati é suddiviso in cinque categorie: 1) Polveri e prodotti affini negli effetti esplodenti; 2) Dinamiti e prodotti affini negli effetti esplodenti; 3) Detonanti e prodotti affini negli effetti esplodenti; 4) Artifici e prodotti affini negli effetti esplodenti; 5) Munizioni di sicurezza e giocattoli pirici.

(D.M. 19 settembre 2002 n.272)

Condizioni microclimatiche; Ci si riferisce ai parametri termo-igrometrici, a quelli di aerazione, ventilazione, illuminazione naturale e artificiale.

Tab 1

Già nella tabella 1, ridotta per ragioni di spazio ed esibita a mo di esempio, si percepisce un Vulnus di sistema evidente. Quanto una civile abitazione (normale) è in linea con questi parametri? La risposta è ovvia, ma da articolare.

La Normativa presa come riferimento dalla DGR 30 è la D.C.R. 22 febbraio 2000, n. 616 – 3149 che a sua volta recepiva il D.P.R 14/01/1997 “atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private – Disposizioni di attuazione”.

Nel Decreto Presidenziale, così come nella DGR 616/2000, non si parla affatto dei Gruppi Appartamento, si può unicamente desumerne l’assimilazione ad altri tipi di strutture più “ospedaliere”. Che ciò avvenisse nel 1997 è comprensibile, nello stesso mese quell’anno in Piemonte sarebbe uscita la DGR 357 (si veda pg. 2, punto 5) che evidenziava la necessità di costruirli i Gruppi Appartamento, tracciandone solo alcune caratteristiche. Più meccanica l’adozione tout-court del legislatore che nel 2000 (D.C.R. 22/2000) e poi nel 2015 DGR 30 trasferisce in modo automatico i requisiti strutturali più tipici di un ospedale a quelli di una civile abitazione. Acritica trasduzione che oltretutto ignora anni di sperimentazione ed esistenza dei GA stessi. Si delinea già come i GA, pur essendo in una certa misura presidi sanitari, non possano derivarne per intero i criteri minimi di funzionamento.

Si è mai vista una civile abitazione che produce Raggi Gamma, Protossido di Azoto e Polvere Pirica? Continuando nella disamina di questo fenomeno, anche culturale, diverrà viepiù evidente questo movimento.

Requisiti trasversali per l’accreditamento Strutturali

I criteri che seguono sono desunti in modo diretto dalla D.G.R. n. 63/2009. Afferma la DGR 30: “In linea con quanto stabilito dalla D.G.R. n. 63 – 12253 del 28 settembre 2009 i requisiti strutturali trasversali per l’accreditamento delle strutture residenziali psichiatriche (S.R.P.1 / S.R.P.2 e S.R.P.3) sono i seguenti:”. Sembra di intendere che la delibera del 2009 parlasse dei GA, mentre in realtà li escludeva in modo univoco dalle procedure di accreditamento: “gli interventi alternativi al ricovero e all’inserimento in strutture residenziali psichiatriche, quali l’assistenza domiciliare, i gruppi appartamento e l’affido familiare, come disciplinati dalla D.C.R. n. 357-1370/1997, non rientrano tra le procedure di accreditamento di cui al presente atto ma sono oggetto di rapporti economici, gestionali ed organizzativi regolati sulla base di convenzioni stipulate tra le parti; – di rinviare altresì ad apposito provvedimento regionale la disciplina delle modalità autorizzative,di accreditamento e di vigilanza dei Gruppi Appartamento per pazienti psichiatrici, ad integrazione della D.C.R. n. 357-1370/1997, anche in conseguenza della sentenza del T.A.R. Piemonte n. 2531 del 27.4.2005 che ne ha sancito la possibilità di gestione sia da parte dei DD.SS.MM. che da parte soggetti terzi;[..]”

Mentre la delibera del 2009 rinviava ad ulteriori riflessioni per accreditare i GA (definiti poi dalla DGR 30 SRP3), quest’ultima invece trae in modo diretto i requisiti che la delibera precedente individuava per altri presidi ad esempio le Comunità protette di tipo A e di tipo B e le Strutture Residenziali e Semiresidenziali Socio Sanitarie per Pazienti Affetti da Patologie della Dipendenza con o senza L’uso di sostanze. Ecco un’altra trasduzione diretta ed inappropriata che non può che snaturare i GA e la loro caratteristica inclusiva di civile abitazione. Se si prendono a modello altre strutture più rigide e protette il danno è fatto. Vediamo come:

  • “Essere organizzati in modo da limitare il più possibile i rischi derivanti da condotte pericolose messe in atto dai soggetti ospitati in momenti di crisi (es.: entrate/uscite sorvegliate, limitazione o controllo dell’accesso a locali e/o aree pericolose)” Ha senso per un GA che di per sé deve essere una civile abitazione, come la stessa DGR 30 afferma (si veda pag 2), possedere aree sorvegliate? Il passo verso le posate di plastica, le sedie inchiodate a terra e la video sorveglianza, atti tipici delle situazioni di urgenza o paraospedaliere, è davvero breve. In un istante un istituto flessibile ed inclusivo (in linea con la letteratura e le buone pratiche) come il GA diventa ben altro.
  • “Prevedere una segnaletica interna semplice, localizzata in punti ben visibili, chiara, con caratteri di dimensioni tali da poter essere letti anche da chi ha problemi di vista con un buon contrasto rispetto allo sfondo”;
  • “Prevedere nell’ingresso della struttura la presenza di uno schema che spieghi in modo chiaro e semplice la distribuzione degli spazi della stessa”

Ancora queste sono situazioni che ricercheremmo in un pronto-soccorso o in un padiglione ospedaliero o comunque in un complesso comunitario esteso. In una casa “normale” con tre stanze un soggiorno ed un bagno ce n’è bisogno? O si rischia di comunicare agli ospiti che non stanno sperimentando un abitare autonomo “come gli altri”?

Sembra ancora una volta evidente come la trasduzione diretta di concetti paraospedalieri in contesti di normalità generi confusione ed esclusione sociale, non certo offra maggiori garanzie di efficacia della cura e tutela per i pazienti stessi, concetto cardine ed ultimo dell’accreditamento.

 Rispetto ai criteri che seguono, dovrebbero essere quelli più specifici e tipici di un GA, la DGR 30 si spinge oltre qualunque aspettativa e normativa eradicando in modo definitivo il concetto di civile abitazione con ciò che ne consegue come ampiamente detto in precedenza. Vediamo come:

 4. Requisiti specifici per l’esercizio e l’accreditamento

(4.1 – Requisiti specifici per l’esercizio – Strutturali)

 – Rispondere ai requisiti previsti per una civile abitazione ed essere in possesso dell’agibilità, nel rispetto di tutte le caratteristiche strutturali e tecnologiche dell’edilizia residenziale;

– Essere costituiti da un massimo di 2 nuclei abitativi, ogni camera non deve ospitare più di 2 posti letto e la struttura deve essere dotata di almeno un servizio igienico ogni 4 utenti (il servizio deve essere completo e accessibile ai soggetti disabili);

– Essere localizzati possibilmente ai piani bassi degli edifici; se collocate al primo piano devono essere raggiungibili con idonea attrezzatura, se collocate ai piani superiori devono essere raggiungibili con ascensore;

Prosegue indefessa la linea che abbiamo già visto, ossia non trattare il teme dei GA ma mutuarne i requisiti in modo diretto da norme ad altro riferite (handicap, anziani disabili fisici)

Come è possibile far riferimento alle norme per le civili abitazioni e poi disattenderle?

In tema di edilizia civile afferma il D.M. n. 236/89 art3-3.2-b: “Negli edifici residenziali con non più di tre livelli fuori terra è consentita la deroga all’istallazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, ivi compresi i servoscala, purché sia assicurata la possibilità della loro istallazione in un tempo successivo. L’ascensore va comunque istallato in tutti i casi in cui l’accesso alla più alta unità immobiliare è posto oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali livelli interrati e/o porticati.”

Perché richiedere l’istallazione dell’ascensore oltre al primo piano? Che idea si ha dei disabili psichici? Quasi sempre sono persone in grado di muoversi “normalmente” la percentuale di pazienti che ha limitazioni fisiche è risibile.

– Prevedere, in caso di presenza del personale socio-sanitario superiore alle 7 ore giornaliere, la presenza di un locale ad esclusivo uso del personale;

– Disporre di un sistema di rilevazione delle presenze per tutto il personale operante nella struttura

Ancora ritroviamo la solita trasduzione da norme relative a presidi sanitari “pesanti” che nulla hanno a che vedere con una civile abitazione (si veda sopra pagina 6). Perché mai uno spazio esclusivo per il personale e magari anche un servizio igienico in una civile abitazione? Nelle nostre case non abbiamo uno spazio apposito per il medico di base che viene a vistarci.

Già viste le situazioni degli operatori chiusi e “distanti” nel proprio spazio esclusivo (nel senso di esclusione) all’interno della casa che un paziente dovrebbe sentire “quasi” come propria.

Conclusioni

La legge 180/78, comunemente conosciuta come Legge Basaglia e tutt’ora vigente, è considerata unanimemente a livello internazionale un punto di riferimento cui tendere.

Considerato che i manicomi esistono ancora in tutto il mondo, molti legislatori stranieri, recentemente persino negli USA, stanno cercando di esportarla.

Il tratto distintivo di questa legge possiamo considerarlo l’inclusione sociale.

I malati psichici vanno curati come gli altri malati ossia sul territorio. Ospedali e strutture territoriali a livelli di intensità diversa hanno preso il posto di un istituzione chiusa e globale come il manicomio. Sfortunatamente tale legge non ha trovato ancora una sua piena attuazione se non nell’ultimo decennio, in particolar modo grazie a dispositivi terapeutico-riabilitativi fra cui anche i GA.

Ahinoi però il pensiero istituzionalizzante non è mai morto del tutto, e ciclicamente si ripresenta sotto mentite spoglie, per lo più per ragioni economiche ma sovente anche in azioni definite “nell’interesse dei pazienti”.

Le Regioni italiane che hanno adottato dispositivi simili alla Dgr 30, per fortuna poche, hanno visto disgregarsi il sistema a rete in cui i Servizi pubblici devono mantenere una governance significativa.

Ambulatori ridotti a dispensari di farmaci, grandi comunità con GA satelliti spesso situati nelle strette vicinanze, infermieri, psicologi e psichiatri ridotti al ruolo di mera badanza e controllo sociale.

In queste poche pagine ci siamo soffermati unicamente sul concetto di civile abitazione, per noi assai esemplificativo dell’intero movimento all’indietro in atto in Piemonte, ben altre sono le norme discutibili e falsate nella dgr in oggetto.

Se questa delibera troverà la sua piena applicazione, vedremo in Regione sorgere come funghi i minicomi e sparire il lavoro territoriale, spesso sperimentale ed all’avanguardia.

Stando ai requisiti di cui abbiamo ampiamente discusso, solo nuove costruzioni o peggio ancora strutture già esistenti ma vuote, nate per altro scopo (ad esempio i disabili fisici o gli anziani) potranno dirsi pienamente accreditabili o autorizzabili.

E’ questo il futuro che vogliamo?