La DGR Saitta inserisce d’autorità tutte le strutture classificate come gruppi appartamento secondo la DCR 357, nella categoria SRP3 secondo il modello Agenas-Gism: ovvero le considera tutte come strutture prive di una funzione terapeutica-riabilitativa, che possono garantire solo interventi di taglio assistenziale a bassa intensità, per pazienti con patologie lievi, croniche e stabilizzate.
Si tratta di un grave errore concettuale e di un’affermazione che non tiene conto della realtà dei fatti: forse un equivoco, dovuto all’uso comune del termine gruppo appartamento per indicare strutture molto diverse fra di loro.
Confidiamo che il previsto censimento dei pazienti inseriti e dei loro bisogni chiarirà finalmente la questione. La tanto sottolineata differenza di costi e di diffusione dei gruppi appartamento in diversi territori piemontesi non è detto che rifletta solo caos e cattiva gestione; è anche frutto del fatto che, in assenza di una programmazione centralizzata da parte della Regione, i Dipartimenti di salute mentale si sono organizzati in maniera diversa. Un po’ per differenze nell’impostazione culturale, un po’ per ragioni oggettive, come le caratteristiche geografiche e sociali dei territori.
Ad esempio nelle aree metropolitane è stato molto più difficile reperire locali adatti a rispettare i rigidi requisiti strutturali previsti per le Comunità protette di tipo A e B a costi sostenibili. Nel 1997 la DCR 357, improvvidamente, conferiva un mandato terapeutico solo a CPA e CPB, prevedendo caratteristiche strutturali analoghe a quelle delle RAF: utili per anziani e disabili, ma del tutto superflue, e a volte controproducenti, per i pazienti psichiatrici. Di conseguenza le comunità protette hanno sviluppato quasi tutte caratteristiche strutturali “pesanti”: massimo dei posti letto previsti (20), per lo più in grandi stabili indipendenti, posti in aree periferiche o rurali, o addirittura dentro complessi di tipo para-ospedaliero, contigue ad altre strutture sanitarie.
E’ del tutto improprio sostenere che sia la pesantezza strutturale, di tipo para-ospedaliero, a conferire una funzione terapeutica alle comunità. Dalla legge 180 in poi, e alla luce di tutta la letteratura internazionale, nessuno può seriamente sostenere che per riabilitare i pazienti psichiatrici serva l’ospedale o strutture che dell’ospedale riproducono la logica ambientale e organizzativa. Infatti le CPA e CPB più serie ed efficaci, nonostante i criteri della 357, fanno di tutto per non sembrare e non funzionare come ospedali in miniatura.
Diversi Dipartimenti di salute mentale piemontesi, e molti gestori privati, (soprattutto, ma non solo, nelle aree metropolitane) hanno risolto in maniera diversa il problema, affidando una funzione terapeutica anche a strutture di civile abitazione. La 357 non lo prevedeva ma nemmeno lo vietava. Così, accanto ai gruppi appartamento leggeri anche in senso funzionale, rivolti a pazienti autonomi o bisognosi di sola assistenza, sono nate altre strutture, denominate gruppi appartamento ai sensi della 357, ma rivolte a pazienti molto più gravi e bisognosi di protezione ed intensità riabilitativa assai superiori. Vere e proprie strutture terapeutico riabilitative in contesti di civile abitazione: prive dei requisiti strutturali pesanti delle comunità protette, ma con dotazioni di personale, quantitative e qualitative, simili, a volte superiori, a quelle delle CPB.
I Dipartimenti che hanno seguito questa strategia (numerosi, ma non tutti, il che spiega in parte le differenze intra-regionali), pur in assenza di accreditamento, hanno stabilito rapporti contrattuali, di convenzione o appalto, con tutti i gruppi appartamento, e dunque ne conoscono nei dettagli l’organizzazione funzionale, gli standard di personale, i costi. Sanno quali hanno funzioni assistenziali (da SRP3), quali hanno funzione terapeutica (almeno da SRP2), e possono documentarlo con assoluta precisione.
La fondatezza di queste affermazioni emergerà con il previsto censimento, ma avremmo preferito che la Regione lo accertasse prima di usare la mannaia e decidere che i gruppi appartamento, solo perché condividono ancora la vecchia denominazione ex DCR 357, sono tutti assistenziali e dunque tutti extra-lea e dunque devono condividere tutti lo stesso costo pro-capite pro-die.
Ma prevedere funzioni terapeutico-riabilitative in normali alloggi di civile abitazione, per gruppi di pazienti inferiori a venti, è forse un azzardo? Viola qualche normativa relativa alla sicurezza? E’ una bizzarria locale, di qualche dipartimento piemontese troppo disinvolto, da sanare con urgenza?
Assolutamente no. Basta dare un’occhiata alle normative di altre Regioni importanti: in Lombardia, Lazio, Toscana, possono avere caratteristiche di civile abitazione anche strutture ad elevata e intermedia intensità terapeutica (SRP1 e 2) a totale carico della sanità, fino a dieci posti. In Emilia Romagna, Veneto e Puglia sono accreditate come SRP1 e 2 strutture di civile abitazione anche oltre i dieci posti; vengono solo richiesti alcuni requisiti strutturali aggiuntivi di buon senso (numero minimo di metri quadri per stanza, almeno un bagno, anche non attrezzato per disabili, ogni 4 posti e poco altro). Non si chiamano gruppi appartamento, ma hanno gli stessi standard funzionali e di personale di alcuni gruppi appartamento piemontesi operanti da anni.
Ad esempio un gruppo appartamento (con due nuclei da 5 posti) oggetto di una recente contrattualizzazione da parte di un ASL piemontese, rispetta lo standard di un rapporto dello 0,9 fra personale in servizio e utenti: quello che la Regione Veneto prevede per le Comunità Terapeutiche Riabilitative Protette di tipo 2 (classificate come SRP2), al 100% sanitarie, di massimo 14 posti e con requisiti di civile abitazione.
In Piemonte strutture di questo tipo ospitano oggi centinaia di pazienti gravi, spesso giovani e ancora instabili, in fase precoce di malattia, che l’applicazione della DGR costringerebbe ad espellere verso le uniche strutture accreditabili come SRP1 e 2 (le vecchie CPA e CPB), visto l’abbattimento degli standard di personale e la prevedibilissima impossibilità di pazienti e comuni di farsi carico delle rette al 60%, Tale inevitabile “deportazione” (spesso dai centri urbani verso zone rurali), per i pazienti costituirebbe un’inaccettabile regressione nel percorso di cura; e quindi, per la Regione, non certo un modo per spendere meglio i soldi, come dichiarato dall’Amministrazione, né tantomeno un risparmio, essendo le strutture di civile abitazione molto più convenienti, a parità di assistenza, rispetto a quelle in cui verrebbero dirottati i pazienti.
Sì, perché a parità di standard di personale, e nonostante il più ridotto numero di posti, le strutture di civile abitazione sono più economiche di circa il 15-20%: lo dimostrano dati pubblici, incontrovertibili e facilissimi da reperire. Infatti la leggerezza strutturale, unita alla flessibilità, consentono di realizzare economie di scala (funzionamento in rete, anche con condivisione di funzioni cruciali, come la copertura notturna o la pronta disponibilità, fra strutture diverse, fra di loro integrate).
Diverse ASL piemontesi hanno riconosciuto queste potenzialità dei gruppi appartamento terapeutici e dei progetti di domiciliarità ad essi integrati, favorendone la diffusione anche come strategia di controllo dei costi della residenzialità psichiatrica (al contrario di chi li considera come posti letto in eccesso rispetto agli standard e quindi spreco di risorse sanitarie).
Dove ciò è avvenuto, è stato possibile realizzare veri percorsi terapeutici integrati (come prescritto dal Piano d’Azioni Nazionale per la Salute mentale del 2013): dimissioni progettuali ed evolutive dalle strutture residenziali, con accompagnamento graduale dei pazienti verso una reale autonomia (progetti territoriali di domiciliarità) o verso situazioni di stabilità clinica, per le quali possono essere utili, anche a medio-lungo termine, i gruppi appartamento di taglio più assistenziale (SRP3 secondo il modello Agenas)
Al contrario, dove non è stata realizzata una rete intermedia di gruppi appartamento di tipo terapeutico, è spesso impossibile colmare il divario fra l’elevata protezione delle strutture comunitarie, gli appartamenti a bassa protezione, e il trattamento ambulatoriale ordinario, il che ha reso problematiche le dimissioni, gonfiando i costi della residenzialità psichiatrica.
Dal punto di vista clinico il punto di forza degli appartamenti è soprattutto la loro normalità: sono meno colpiti da stigma e pregiudizio sociale e sono più graditi da utenti e famiglie, in quanto abitazioni qualunque: come quelle in cui vivono tutti i cittadini, parte integrante del territorio. Obiettivo della riabilitazione psichiatrica è infatti di consentire a pazienti gravemente sofferenti di curarsi nel mondo normale, sfuggendo all’emarginazione e alla perdita dei diritti di cittadinanza.
In conclusione, formuliamo le seguenti proposte di miglioramento:
• le strutture di civile abitazione, ancora definite come gruppi appartamento, ma che possiedono dimostrabili standard terapeutico-riabilitativi, devono potersi accreditare come SRP2, ovvero come strutture residenziali psichiatriche ad intermedia intensità terapeutica. Come tali devono essere a totale carico del servizio sanitario nazionale e prevedere una durata definita dei trattamenti.
• Le uniche strutture da accreditare come SRP3, extra lea ai sensi del vigente Dpcm del 2001, dovrebbero essere quelle davvero a bassa assistenza: ovvero i gruppi appartamento coperti per fasce orarie, con prevalente personale di tipo assistenziale, rivolte a pazienti già autonomi o stabilizzati.
• Per tutte le strutture, escluse le CPA e CPB, dovrebbero essere previsti i criteri strutturali di civile abitazione, al massimo integrati da quelli richiesti da alcune Regioni, come Veneto, Emilia Romagna e Puglia. Dovrebbe essere cioè emendato il criterio della DGR che, vorrebbe imporre anche alle strutture di civile abitazione pesanti requisiti strutturali aggiuntivi (che nessuna delle Regioni citate prevede) come: ascensori, bagni per disabili, stanza operatori obbligatoria, bollatrice, segnaletica interna, ecc: forse utili in strutture per disabili o anziani, ma del tutto inutili, ed anzi controproducenti, in abitazioni per pazienti psichiatrici, la cui qualità e sicurezza non dipendono certo dall’essere forzate ad assumere standard da reparto ospedaliero.