GRUPPI APPARTAMENTO: terapeutico non significa coperto sulle 24 ore

Verso una Definizione di Terapeuticità dei Gruppi Appartamento

 

appartamento terapeuticoDGR 30 atto secondo: finalmente la fase propositiva!

Dopo una lunga “battaglia” culturale, politica e legale si cambia verso in Piemonte.

Grazie all’impegno delle Associazioni di familiari e pazienti, del Privato Sociale e del Privato Profit che hanno fatto sentire la loro voce ricorrendo al TAR.

Grazie a quelle forze politiche che in Consiglio Regionale hanno chiesto alla Giunta Regionale di cambiare rotta proponendo documenti, simili a ciò che Abitazioni Terapeutiche chiede da quasi due anni, in primis riconoscere che almeno una parte dei gruppi appartamento ha carattere terapeutico ed è da comprendere fra le strutture sanitarie.

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INTERVISTA A PEPPE DELL’ACQUA SUL “RIORDINO” DELLA PSICHIATRIA PIEMONTESE

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“MISSILI INTELLIGENTI SULLA RESIDENZIALITA’? SI’, MA PER RISCOPRIRE IL SENSO VERO DELLA CURA”
Lo psichiatra triestino spiega il significato del suo intervento alle “giornate basagliane”

Se disponessi di missili intelligenti, li userei per abbattere in modo mirato tutte le strutture residenziali psichiatriche che hanno sostituito i vecchi manicomi, mantenendone di fatto la logica”. Firmato: Peppe Dell’Acqua. Il celebre psichiatra salernitano, che iniziò a lavorare con Franco Basaglia e che fino al 2012 ne è stato il materiale successore, dirigendo il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, ha spiazzato molti colleghi torinesi, che il 23 ottobre erano accorsi ad ascoltarlo al Caffè Basaglia di via Mantova, ospite d’onore delle “giornate basagliane”.

Ma come? L’evento non era stato organizzato innanzitutto per difendere la residenzialità psichiatrica piemontese? Per contrastare, sul piano culturale, la delibera della Regione Piemonte che rischia di stravolgere la rete di comunità e appartamenti costruita negli anni, grazie anche alla fatica e alla dedizione di tanti operatori “progressisti”?

In realtà, chi conosce meglio la storia dei servizi di Trieste non ha motivi per stupirsi, perché la polemica contro i “nuovi contenitori istituzionali” da sempre contraddistingue quell’esperienza, così come ben noto è lo stile comunicativo impetuoso e provocatorio di Dell’Acqua .

Ma al Caffè Basaglia non è stato possibile, per ragioni di tempo, sviluppare il dibattito e lo sconcerto di molti, e le tante domande che ne sarebbero derivate, sono rimasti senza risposta. Per questa ragione abbiamo ricontattato Dell’Acqua, il quale ha dato molto cortesemente la disponibilità a proseguire il discorso per telefono, in attesa di poterlo riprendere di persona, quando riuscirà a tornare a Torino.

Caro Dr. Dell’Acqua, la sua provocazione sulla necessità di “bombardare” tutte le strutture residenziali, senza distinzione fra pesanti e leggere, ha destato parecchio scalpore fra gli operatori piemontesi. Ci aiuti a capire meglio che cosa intendeva. Non esiste nemmeno una residenzialità buona e una cattiva? Davvero pensa che tutte le esperienze si equivalgano e che tutte siano solo una riedizione del manicomio?

Certamente no, non è quello che intendevo. E’ evidente che quella sui missili intelligenti è una provocazione, il cui scopo è invitare tutti a ritrovare uno sguardo critico: occorre innanzitutto ripensare a che cosa si intende per cura in salute mentale, che cosa significa affrontare, attraversare il disturbo mentale. So bene che anche nella cosiddetta residenzialità, tra gli operatori di base, si trovano i mille “nuovi Basaglia”, che, come dice Franco Rotelli, ogni giorno danno l’anima e tengono vivi i principi della riforma psichiatrica”.

E allora qual è il rischio che vede per le strutture residenziali?

“Il rischio è rimanere imprigionati nella logica del posto letto, far prevalere ancora una volte la psichiatria dei contenitori: il contenitore per le acuzie, che è il repartino ospedaliero; il contenitore per la sub-acuzie, che è la clinica convenzionata; e i contenitori per la cronicità, che sono le cosiddette residenze. Il problema è quando le comunità, o gli appartamenti, non sono contesti di cura, o abitazioni, ma luoghi dove stare: posti letto da occupare, e non occasioni per vivere ed evolvere nel mondo, attraversando il proprio disturbo. Non bisognerebbe mai parlare di posti letto ma di progetti e di percorsi”.

Qual è la differenza?

“Il progetto è sempre individuale, costruito su misura per i bisogni di quella particolare persona, è un concetto dinamico. Invece il posto letto è uguale per tutti, richiama innanzitutto la necessità di essere occupato, in modo statico. In una struttura che funziona come un insieme di posti letto, si sta; non si abita, non si evolve, non si vive. E non importa che sia una “bella struttura”; che i locali siano puliti, accoglienti o addirittura eleganti. Gli operatori devono resistere alla fascinazione del “bel luogo dove stare”, che è una riproposizione del modello del “buon manicomio”, a cui Basaglia si è sempre opposto con straordinaria determinazione”.

Ma in che senso i progetti devono sempre essere individuali? Non riconosce un ruolo terapeutico alla dimensione gruppale? Cioè al condividere la quotidianità con altre persone come esperienza terapeutica, che insegna ad “accorgersi dell’Altro”, ad acquisire competenze relazionali da spendere nel mondo?

“Certamente sì, a Trieste lo chiamiamo “abitare insieme”; si tratta di progetti per piccoli gruppi, in genere sei, massimo otto persone, in normali abitazioni. So che anche in Piemonte esistono diverse esperienze simili. Abitare è una prospettiva molto diversa dall’ “essere collocati” in una struttura. Sono situazioni che il Centro di salute mentale gestisce in collaborazione con il privato, mantenendo la titolarità del progetto complessivo; noi parliamo di co-progettazione, il che non significa semplice subalternità del privato al pubblico, ma nemmeno delega in bianco ad un soggetto terzo, attraverso il pagamento di una retta. In Friuli Venezia Giulia, come in altre Regioni (Emilia Romagna, Campania) abbiamo potuto sviluppare al meglio questo tipo di approccio grazie all’introduzione del cosiddetto budget di salute

Come funziona?

E’ un meccanismo amministrativo grazie al quale l’Asl può definire una previsione di spesa per una persona (un budget appunto) da utilizzare secondo un progetto personalizzato; ovvero, non solo per pagare una retta, acquistare un pacchetto preformato messo a disposizione da un fornitore, bensì per contrattare con l’utente e con il fornitore, o anche con più fornitori per aspetti diversi (ad esempio abitazione, lavoro, tempo libero), progetti fatti su misura e flessibili. In questo modo non è l’utente che deve adattarsi alla “struttura” ma il progetto che viene adattato ai bisogni della singola persona. La residenzialità, intesa come abitare, in un appartamento o in una convivenza protetta, non può rimanere scollegata dal progetto di vita complessivo, non può significare fuoriuscita dal mondo normale”.

Nell’ambito di questi progetti, operatori del Csm possono lavorare fianco a fianco con operatori del privato? In Piemonte è stata messa fortemente sotto accusa la cosiddetta commistione fra pubblico e privato.

Certo che possono, anzi devono! Il servizio pubblico deve garantire e coordinare tutti i percorsi di cura, non deve mai fornire deleghe in bianco o limitarsi a produrre, in modo formale, procedure di “invio”. Deve essere presente, con personale proprio, in tutte le fasi del percorso terapeutico e riabilitativo, che è sempre espressione della presa in carico territoriale. Per questo insistiamo sul ruolo del centro di salute mentale aperto 24 ore. Il rapporto fra pubblico e privato deve essere di partnership, di co-progettazione, attraverso procedure amministrative corrette e trasparenti, come quelle che il budget di salute consente. L’idea per cui la separazione deve essere rigida e assoluta, o fa tutto il pubblico o fa tutto il privato, è assurda”.

Lei insiste molto sulla personalizzazione dei percorsi. E’ informato che, a margine della delibera sulla residenzialità, la Regione Piemonte ha intimato ai servizi di non ricorrere a progetti individuali, di domiciliarità o per piccolo gruppo, in quanto non previsti dalla normativa?

Per l’appunto, come dicevo all’inizio, si tratta di ritrovare uno sguardo critico, tornare a ragionare su cosa significa cura in salute mentale. Il pericolo è attuare il cambiamento attraverso il “riordino” del peggio, cioè l’assoluto paradosso: eliminare quello che funziona bene e far diventare modello unico ciò che funziona peggio, il sistema dei posti letto e dei contenitori rigidi, separati dalla presa in carico, al di fuori dei quali non esiste più nulla; un sistema che non cura ma al contrario coltiva la malattia e produce cronicità ed esclusione”.

In conclusione, se abbiamo capito bene il messaggio agli operatori piemontesi atterriti dalla delibera sul riordino della residenzialità non è: “siate felici se vi fanno chiudere bottega…”

Ma no, certamente no. Piuttosto vuole essere: approfittatene, approfittiamone, per ripensare al nostro modo di lavorare, per tornare a dibattere, a far girare le idee. Non limitiamoci a difendere l’esistente, ma mobilitiamoci per diffondere le buone pratiche, sulle quali, evidentemente, non si è discusso a sufficienza e non sono abbastanza conosciute e sostenute

PERCHÉ LA DGR 30 MERITA DI ESSERE CANCELLATA DAL TAR

PERCHÉ LA DGR 30 MERITA DI ESSERE 

CANCELLATA DAL TAR 

 

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Lea, diritto alla Salute e Presupposti Normativi

 

Continuiamo a voler credere nella buona fede di chi ha scritto la Dgr 30. Ma, buona fede a parte,  manca tutto il resto: conoscenza della realtà concreta della residenzialità psichiatrica in Piemonte, conscenza della lettertura scientifica sulla riabiitazione, capacità di interpretazione corretta delle  normative vigenti. Su quest’ultimo punto si baseranno i numerosi ricorsi annunciati al Tribunale Amministrativo Regionale. Senza avere alcuna competenza giuridica, riassumiamo alcune delle motivazioni più macroscopiche, evidenti anche ai profani, per cui i ricorsi  ci sembrano  fondati e con buone probabilità di essere accolti.

 

Presupposti normativi

 

La Dgr 30 afferma di voler superare la vigente normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica (DCR 357 del 1997), applicando il cosiddetto modello Agenas Gism, promulgato dalla Conferenza Unificata Stato Regioni il 17/10/2013  e recepito dalla Regione Piemonte  con D.C.R. del 23 dicembre 2013, n. 260 – 40596.

Afferma inoltre di attenersi alla normativa nazionale sui LEA: livelli essenziali di assistenza (Decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229; Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29/11/2001).

Con tali premesse, assegna tutte le strutture esistenti sul territorio piemontese denominate “gruppi appartamento” e “comunità alloggio”, ai sensi della DCR 357 del 1997, alla tipologia socio-assistenziale, a bassa assistenza (SRP 3), e pertanto le esclude dai livelli essenziali di assistenza.

Al contempo considera tutte le strutture accreditate come “comunità protette di tipo A” e  “comunità protette di tipo B” ai sensi della DCR 357 come strutture terapeutiche e quindi  di totale competenza sanitaria.

Riteniamo che tale decisione rappresenti un’applicazione illegittima sia dell’Accordo Stato Regioni del 2013 sia, soprattutto, della normativa nazionale sui LEA.

 

Il modello Agenas Gism

 

E’ stato recepito dall’Accordo Stato Regioni nel 2013, e prevede che le strutture residenziali psichiatriche accreditate (SRP) debbano appartenere a tre diverse tipologie distinte (pag 5): SRP1 (“strutture per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere intensivo”); SRP2 (“strutture per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo”); SRP3 (“strutture per trattamenti socio-riabilitativi, a bassa intensità riabilitativa”).

La distinzione fra le tre tipologie è di puro carattere funzionale: riguarda le caratteristiche cliniche, la qualità dei programmi riabilitativi, ovvero: (pag 5 e 6) “numerosità e intensità degli interventi complessivamente erogati; il mix di tipologie diverse di interventi (individuali, di gruppo, terapeutici, riabilitativi, in sede, fuori sede, ecc); la numerosità e l’intensità degli interventi di rete sociale (famiglia, lavoro, socialità”

Non si fa alcun accenno a criteri strutturali (relativi ai requisiti abitativi) specifici, né distinti per SRP 1,2 e 3. Peraltro nessuna normativa nazionale sulla salute mentale (né il Progetto Obiettivo Nazionale Salute mentale del 1999, né il Piano d’Azioni Nazionale per la Salute Mentale del 2013) stabilisce alcuna correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa di una struttura e le sue caratteristiche strutturali-abitative.

Al contrario la DGR 30, nel definire i criteri in base ai quali le strutture potranno presentare istanza di autorizzazione all’esercizio e di accreditamento, privilegia i requisiti strutturali-abitativi a quelli clinico funzionali. Da questo punto di vista, contraddice il modello Agenas-Gism e conserva l’impostazione prevista dalla precedente DCR 357 del 1997.

 

LA DCR 357 del 1997

 

A differenza del modello Agenas-Gism, la DCR 357 mescolava requisiti strutturali-abitativi a requisiti funzionali. Prevedeva infatti l’esistenza di strutture con mandato terapeutico, ad elevata ed intermedia intensità, denominate comunità protette di tipo A e B rispettivamente; prescriveva per esse una capienza massima di venti posti e requisiti strutturali-abitativi para-ospedalieri , per quanto riguarda metratura, organizzazione degli spazi, impianti sanitari, accessibilità ai disabili, ecc: i medesimi previsti dalla normativa regionale per le residenze socio-assistenziali per anziani e disabili (RAF e RA), previste dalla Dgr 38 del 1992

Assegnava invece una funzione socio-sanitaria a bassa intensità alle strutture denominate “comunità alloggio”, anch’esse provviste di requisiti strutturali-abitativi di tipo para-ospedaliero (sempre normati dalla DGR 38 del 1992 relativa ai presidi per anziani e disabili) ma con una capienza più ridotta (massimo dieci posti). E assegnava una funzione socio-sanitaria, a bassa intensità riabilitativa, anche alle strutture di civile abitazione, prive di requisiti strutturali abitativi di tipo para-ospedaliero (denominate “gruppi appartamento”) e ancora più ridotte nella capienza (massimo cinque posti per ogni nucleo) .

In questo senso veniva stabilita una correlazione fra intensità terapeutica delle strutture e aspetti strutturali-abitativi: le strutture di più grandi dimensioni, e con caratteristiche di tipo para-ospedaliero, investite di una funzione terapeutica; quelle di più ridotte dimensioni (comunità alloggio) o di civile abitazione (gruppi appartamento) investite di una funzione socio-sanitaria, a bassa intensità terapeutica .

L’evoluzione delle struttura psichiatriche piemontesi dal 1997 ad oggi

A dispetto di quanto prevedeva sulla carta la DCR 357, la realtà effettiva delle strutture residenziali psichiatriche si è evoluta in modo assai più vario e complesso.

In particolare:

1 sono state aperte negli anni diverse strutture ad impostazione terapeutico-riabilitativa, non classificabili come comunità protette di tipo A e B ai sensi della 357, bensì come comunità alloggio e gruppi appartamento. Tale evoluzione è stata resa possibile dal fatto che la 357, pur definendole in modo generico come strutture a bassa assistenza, non prescriveva per esse alcun preciso standard di personale.

Sono nati gruppi appartamento e comunità alloggio che, dal punto di vista funzionale, (ore di copertura, profilo professionale degli operatori, tipologia degli tenti ospitati e durata degli interventi) possiedono standard analoghi o perfino superiori a quelli delle comunità protette.

SI è potuta così completare una vera e propria rete di strutture terapeutiche, con caratteristiche differenziate, anziché lasciarne il monopolio ad una singola tipologia di struttura (comunità protette di tipo A e B) di grandi dimensioni e con requisiti strutturali para-ospedalieri. La disponibilità di diverse opzioni terapeutiche residenziali (comprese strutture di dimensioni più ridotte e con caratteristiche di civile abitazione) permette infatti di realizzare meglio quei percorsi individualizzati di riabilitazione previsti dal Piano d’Azioni nazionale per la salute mentale del 2013 con la massima efficacia ed efficienza, come documentato della letteratura scientifica specializzata, e come si argomenterà meglio nei prossimi paragrafi.

2 Anche le comunità protette si sono sviluppate in maniera assai eterogenea: soprattutto le comunità protette di tipo B, di gran lunga le più numerose, i cui standard di personale minimi previsti dalla DCR 357 sono più ridotti (mentre non vengono definiti standard massimi né una retta standard).  Alcune CPB funzionano in realtà con standard e rette molto simili a quelli della CPA e svolgono quindi un’attività terapeutica ad intensità elevata: altre CPB funzionano con standard prossimi a quelli minimi previsti dalla normativa e hanno dunque un potenziale terapeutico molto più limitato; alcune si sono specializzate a svolgere una funzione prevalente di tipo assistenziale, con permanenza media degli utenti assai prolungata.

Nonostante questa eterogeneità funzionale la DGR 30 assegna in modo automatico le CPA alla categoria SRP1 e le CPB alla categoria SRP2.

Una corretta applicazione del modello Agenas Gism richiederebbe invece che l’attribuzione a una delle categorie SRP fosse decisa sulla base dell’analisi delle caratteristiche funzionali specifiche di ogni struttura. Tale analisi dovrebbe avvenire attraverso una fase di censimento funzionale delle strutture, che la DGR 30 non prevede, limitandosi a disporre una rivalutazione dei pazienti inseriti, in quella che definisce la “fase transitoria” (pag, 5) . Solo una successiva Dgr, di inizio settembre 2015, ha stabilito di affiancare alla valutazione dei pazienti anche una valutazione funzionale delle strutture, senza però prevedere un mutamento dei criteri di accreditamento, che continuano a basarsi solo sulle vecchie categorie ascrivibili alla DCR 357

Ma il semplice riferimento ai criteri della 357 non permette di discriminare fra le effettive caratteristiche funzionali delle strutture.

· L’unico requisito che distingue in modo oggettivo, come categoria, i gruppi appartamento dalle comunità protette è puramente strutturale-abitativo: le caratteristiche di civile abitazione.

· Nessun criterio oggettivo, ai sensi della 357, neppure strutturale-abitativo, permette di distinguere fra le comunità protette di tipo B con funzione terapeutica più intensiva, meno intensiva o con orientamento assistenziale.

 

La normativa nazionale sui LEA

 

La principale normativa nazionale che definisce i livelli essenziali di assistenza è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001. Il riferimento specifico alla residenzialità psichiatrica è contenuto  nell’allegato 1, punto 1.c, pag 38, che considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. Anche in questa norma non viene fatto alcun riferimento a requisiti strutturali-abitativi, né si parla di gruppi appartamento o di caratteristiche di civile abitazione. Il criterio che identifica le strutture escluse dai LEA è puramente funzionale: “strutture a bassa intensità assistenziale”.

L’interpretazione che la DGR 30 fa di questo passaggio è che si debba considerare a bassa assistenza qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la DCR 357 del 1997.

Si tratta di un’affermazione in contrasto con la realtà, come argomentato nel paragrafo precedente. Non è sufficiente, infatti, limitarsi a quanto la DCR 357 prescriveva in astratto per i gruppi appartamento, definiti come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”(pag 13); fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti in effetti di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

Occorre invece riferirsi allo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi, a come essi funzionano nella realtà: agli effettivi requisiti funzionali (tipologia degli utenti inseriti, numero di ore di copertura, profilo professionale degli operatori, orientamento clinico degli interventi, durata degli inserimenti). Tali caratteristiche sono facilmente verificabili, poiché, pur in assenza di un formale accreditamento, la gran parte dei gruppi appartamento ha un rapporto contrattualizzato con le Asl invianti, il che consente di controllare in modo dettagliato tutti i requisiti funzionali.

Dal censimento funzionale emergerà che per molte delle strutture classificate come gruppi appartamento ai sensi della DCR 357,  la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile, poiché, secondo il DPCM 29/11/2001 devono considerarsi a totale carico del servizio sanitario nazionale, le strutture che (quali che siano i loro requisiti strutturali-abitativi, che il Dpcm non cita) possiedono un chiaro e inequivoco orientamento riabilitativo. Sarebbe facile verificare che la maggior parte dei GA ad orientamento riabilitativo soddisfa almeno i criteri definiti dalla Conferenza Unificata in riferimento alle SRP2, per quanto riguarda (pag. 8):

·  la tipologia degli utenti (“pazienti con compromissioni del funzionamento personale e sociale gravi, o di gravità moderata, ma persistenti e invalidanti”, per i quali si ipotizzano ulteriori possibilità evoljutive)

· la tipologia dei programmi di trattamento (“trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo, da attuare in programmi a media intensità riabilitativa, anche finalizzati a consolidare un funzionamento adeguato alle risorse personali”)

· la prevalenza di personale sanitario (équipes multidisciplinari, con figure sanitarie come educatori, terapisti della riabilitazione, psicologi, infermieri)

· la definizione standardizzata di una durata massima del programma, con l’obiettivo di far evolvere il paziente verso situazioni di maggiore autonomia, oppure verso contesti assistenziali o riabilitativi di mantenimento (SRP3)

Il DPCM del 29/11/2001, (introduzione all’Allegato 1 sezione C) esclude dai LEA solo le “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale” ovvero le  “prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili”.

Tale definizione non si può applicare alle strutture residenziali psichiatriche che svolgono una prevalente funzione riabilitativa, poiché l’orientamento riabilitativo comporta una chiara e  inequivoca natura sanitaria.

Infatti lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M, include fra le prestazioni a carico totale del SSN tutte le prestazioni di riabilitazione psichiatrica e, in particolare, a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

La definizione “strutture a bassa intensità assistenziale”si compone di due elementi:

1 “assistenziale”, elemento qualitativo, che fa riferimento alla categoria di intervento  (assistenziale in quanto distinto da terapeutico e riabilitativo)

2) “bassa intensità”, elemento quantitativo.

Il criterio qualitativo, ovvero l’orientamento assistenziale e non terapeutico-riabilitativo degli interventi, è quello più rilevante, poiché solo agli interventi di tipo assistenziale può essere attribuito il requisito richiesto dal DPCM  “prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili”. Nella letteratura psichiatrica e medica, per interventi assistenziali si intendono infatti interventi non mirati a modificare o correggere le disfunzioni legate ad una patologia, ma semplicemente di tipo sostitutivo, per disabilità considerate immodificabili, che richiedono quindi un sostegno a tempo indeterminato di natura socio-assistenziale (United States Association for Psychiatric Rehabilitation; Piano d’Indirizzo per la Riabilitazione, Conferenza Stato-Regioni, 2011)

Al criterio qualitativo “assistenziale” deve aggiungersi il criterio quantitativo (ridotti standard di personale e di copertura)

La DCR 23 dicembre 2013, n. 260 – 40596, che ha recepito l’accordo concernente le strutture residenziali psichiatriche approvato in data 17 ottobre 2013 dalla Conferenza unificata, fornisce criteri molto chiari per individuare le strutture con caratteristiche qualitative di tipo assistenziale e quantitative di bassa intensità. Si tratta delle SRP3 di tipo 3, che si caratterizzano per:

o la tipologia dei pazienti (“pazienti clinicamente stabilizzati, che presentano bisogni riabilitativi prevalentemente orientati alla supervisione e nella pianificazione e nella verifica delle attività della vita quotidiana”)

o la tipologia degli interventi (“programmi socio riabilitativi a bassa intensità riabilitativa con prevalenza di attività di assistenza e risocializzazione”, e dunque prevalenza di figure professionali a carattere assistenziale: Oss, colf)

o la non definizione standardizzata di una durata massima dell’intervento, se non quella prevista dal Progetto Terapeutico Riabilitativo Personalizzato

o la bassa copertura oraria da parte degli operatori (“assistenza garantita solo in alcune fasce orarie diurne”)

Si possono dunque definire strutture a bassa intensità assistenziale quelle che, indipendentemente dall’inquadramento strutturale secondo la DCR 357 del 1997, come gruppi appartamento, comunità alloggio o appartamenti supportati,  possiedano i seguenti requisiti organizzativi: tipologia di utenti e caratteristiche funzionali delle SRP3 con copertura oraria per fasce (inferiore alle 12 ore giornaliere)

Strutture con tali caratteristiche esistono, ma sono solo una ridotta percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte (quale percentuale precisamente dovrebbe emergere dal censimento funzionale, che la DGR 30 non ha previsto).

Le decisione della DGR 30 di considerare indiscriminatamente tutti i gruppi appartamento come strutture extra lea è in palese violazione della normativa nazionale sui livelli essenziali di assistenza, anche per quanto riguarda i principi generali, definiti dal decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229.

In particolare all’art 1 comma 7 del decreto legislativo  si legge: “Sono posti a carico  del  Servizio  sanitario  le  tipologie  di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano,  per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un  significativo  beneficio  in  termini  di   salute,   a   livello individuale o collettivo, a  fronte  delle  risorse  impiegate.  Sono esclusi dai livelli di  assistenza  erogati  a  carico  del  Servizio sanitario nazionale le  tipologie  di  assistenza,  i  servizi  e  le prestazioni sanitarie che:

a) non rispondono a necessita’  assistenziali  tutelate  in  base  ai principi ispiratori del Servizio sanitario  nazionale  di  cui  al comma 2;

b) non soddisfano il principio dell’efficacia e  dell’appropriatezza, ovvero la cui efficacia non e’ dimostrabile in base alle  evidenze scientifiche disponibili o sono utilizzati  per  soggetti  le  cui condizioni   cliniche   non   corrispondono    alle    indicazioni raccomandate;

c) in presenza di altre forme di assistenza  volte  a  soddisfare  le medesime esigenze, non soddisfano il  principio  dell’economicita’ nell’impiego  delle  risorse,  ovvero  non  garantiscono  un uso efficiente delle risorse quanto a modalita’ di  organizzazione  ed erogazione dell’assistenza”.

In merito al primo criterio (rispondere o meno a necessità assistenziali che facciano riferimento ai principi ispiratori del  Servizio sanitario Nazionale) riteniamo perfino superfluo doversi dilungare: avendo i gruppi appartamento, come e più delle comunità protette, lo scopo di prevenire l’istituzionalizzazione e l’emarginazione sociale, attraverso il miglioramento delle competenze socio-relazionali, colpite in modo specifico dalla patologia psichiatrica, la corrispondenza appare ovvia e lampante.

Rispetto al secondo criterio, l’esistenza di un’evidenza di efficacia, non esiste alcun dato in letteratura che dimostri la superiore efficacia clinica di strutture dotate di requisiti strutturali di tipo para-ospedaliero, rispetto a quelle collocate in contesti di civile abitazione. Le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di terapeuticità delle strutture leggere, di piccole dimensioni, e in contesto di civile abitazione, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali. I programmi terapeutico-riabilitativi che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Centri di salute mentale, si accordano al massimo grado con le definizioni ufficiali della letteratura internazionale, secondo la quale la riabilitazione psichiatrica ha lo scopo di  fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009)

I gruppi appartamento che funzionano come strutture residenziali terapeutiche di civile abitazione, sono molto meno colpiti da stigma e  pregiudizio sociale e sono più graditi da utenti e famiglie.

Un principio cardine non solo della letteratura scientifica, ma di tutta la normativa nazionale vigente (dalla legge 180, al Progetto obiettivo per la salute mentale, al Piano d’azioni nazionale per la salute mentale del 2013) è che il benessere e le abilità per vivere nella società non si recuperano fuori dal mondo, in istituzioni di tipo para-ospedaliero, ma all’interno del normale tessuto sociale.

L’altro fattore specifico di terapeuticità delle strutture leggere è il numero più ridotto di utenti (da 5-6 a 10-12) che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo

Per quanto riguarda il terzo criterio, relativo all’economicità, è facile dimostrare che le strutture di civile abitazione, a parità di requisiti funzionali e di personale, sono più economiche delle comunità protette di tipo A e B, perché di più piccole dimensioni e meno gravate da pesanti requisiti strutturali.

Proprio per ragioni economiche le strutture di civile abitazione si possono più facilmente realizzare nei centri urbani, mentre i grandi complessi strutturali necessari ad ospitare le comunità protette di tipo A e B trovano collocazione in genere in contesti extra-urbani.  Se la funzione terapeutica fosse rimasta confinata alle comunità protette, sarebbe stato impossibile, soprattutto nei centri urbani medi e grandi, realizzare reti di prossimità fra strutture riabilitative e progetti di domiciliarità integrati, con diversi livelli di intensità e protezione (“Residential Array”, o “gamma residenziale”, secondo la terminologia della letteratura internazionale)

Dove ciò è avvenuto, sono state possibili dimissioni progettuali ed evolutive dalle strutture residenziali, accompagnando gradualmente i pazienti verso una reale autonomia (progetti territoriali di domiciliarità) o verso situazioni di stabilità clinica, per le quali possono essere utili, anche a medio-lungo termine, i gruppi appartamento di taglio più assistenziale (SRP3 secondo la Conferenza Unificata)

Al contrario, dove non è stata realizzata una rete intermedia di gruppi appartamento di tipo terapeutico, è spesso impossibile colmare il divario fra l’elevata protezione delle strutture comunitarie, gli appartamenti a bassa protezione, e il trattamento ambulatoriale ordinario,  il che ha reso problematiche le dimissioni, gonfiando i costi della residenzialità psichiatrica.

La residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono quindi i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti. Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione. Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Infine, alla definizione del concetto di LEA in salute mentale contribuisce anche il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, secondo il quale deve essere inteso come: “percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”.

I gruppi appartamento con valenza terapeutica sono da considerarsi LEA anche perché non sono realtà a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. (Corrigan e colleghi, Principles and Practice of Psychiatric Rehabilitation: An Empirical Approach, già citato)

Il confronto con altre normative regionali

Nessuna normativa nazionale obbliga le Regioni a stabilire requisiti strutturali di tipo para-ospedaliero per le strutture residenziali psichiatriche, nemmeno per quelle ad alta ed intermedia intensità riabilitativa e a totale carico della sanità.

Il cosiddetto “Decreto Bindi” (Decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997 “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attivita’ sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private”) consente, a livello nazionale, (pag 14) il funzionamento di qualunque struttura residenziale psichiatrica, fino a dieci posti, in contesto di civile abitazione, senza alcun requisito strutturale aggiuntivo, a parte la seguente, generica indicazione: “organizzazione interna che consenta sia gli spazi e i ritmi della normale vita quotidiana, sia le specifiche attività sanitarie, con spazi dedicati per il personale, per i colloqui e per le riunioni”

Diverse Regioni italiane attuano tale indirizzo alla lettera. Ad esempio, la Toscana autorizza l’esercizio di strutture, a prescindere dall’intensità terapeutica (sia le SR Terapeutico-riabilitative, sia le SR Socio-riabilitative, ad alta e bassa intensità assistenziale) in contesti di civile abitazione fino a dieci posti. Lo stesso fa il Lazio, in riferimento a due tipologie residenziali, a orientamento terapeutico e assistenziale: rispettivamente SRTR (Strutture residenziali terapeutico-riabilitative) e  SRSR (Strutture residenziali socio-riabilitative) semplici requisiti di civile abitazione fino a dieci posti letto. Anche la normativa della Lombardia prevede che sia le strutture ad alta e media intensità riabilitativa (CRA e CRM) sia quelle protette ad orientamento assistenziale (CPA e CPM), tutte a totale carico della sanità,  possano trovare collocazione in contesti di civile abitazione, fino a dieci posti letto.

Altre Regioni consentono l’esercizio di strutture residenziali psichiatriche in contesti di civile abitazione anche oltre il limite dei dieci posti. Ad esempio l’Emilia Romagna prevede requisiti di civile abitazione, con pochi requisiti aggiuntivi di buon senso (“almeno un servizio ogni quattro ospiti e almeno il dieci per cento di stanze singole” ) sia per le strutture intensive (RTI) che per quelle riabilitative estensive (RTR) fino a 20 posti. Il Veneto prevede per le CTRP (Comunità Terapeutica Riabilitativa Protetta) ad alta e intermedia intensità, da 12 a 20 posti, requisiti di civile abitazione, purché garantiscano: “almeno un bagno ogni quattro pazienti, almeno 20 metri quadri a paziente, e opportune forme di evacuazione individuate le vie di fuga in ragione del rischio equivalente alla collocazione abitativa”. La Puglia prevede per le Comunita’ riabilitative a elevata intensita’ assistenziale, da dodici a sedici posti, e per le Comunita’ riabilitative a media intensita’ assistenziale, da dodici a venti posti, requisiti di civile abitazione, e in più “superficie minima delle camere  non inferiore a sei metri quadri per posto letto, per ogni  camera a piu’ letti, almeno nove metri quadri per le camere singole; un bagno ogni quattro utenti; una cucina piastrellata sino a 2 metri di altezza a partire da terra”.

Come si vede, nessuna di queste normative prevede, neanche per strutture di ampie dimensioni,  con mandato terapeutico e a totale carico della sanità, pesanti requisiti strutturali para-ospedalieri.

Risulta perciò incomprensibile, sulla base della legislazione vigente, e inaccettabile, dal punto di vista dei principi della riabilitazione psichiatrica, che la DGR 30 preveda non solo l’esclusiva degli interventi terapeutici alle strutture con requisiti  para-ospedalieri, ma anche requisiti strutturali aggiuntivi assai onerosi per le strutture di civile abitazione. In particolare (art 4.1 pag 32): “servizio igienico accessibile ai soggetti disabili”; collocazione “possibilmente ai piani bassi degli edifici; se collocate al primo piano devono essere raggiungibili con idonea attrezzatura, se collocate ai piani superiori devono essere raggiungibili con ascensore”; “possedere i requisiti di adattabilità di cui all’art. 6 del D.M. n. 236/89 in termini di abbattimento delle barriere architettoniche”; “prevedere, in caso di presenza del personale socio-sanitario superiore alle 7 ore giornaliere, la presenza di un locale ad esclusivo uso del personale”; “disporre di un sistema di rilevazione delle presenze per tutto il personale operante nella struttura”.

SI tratta di requisiti utili in un ospedale o in un ambulatorio, ma del tutto fuori luogo in un contesto che deriva la sua specificità terapeutica dall’essere una normale abitazione, inserita nel normale contesto sociale; indispensabili per pazienti con disabilità motorie o anziani, ma inutili e anzi controproducenti per i pazienti psichiatrici (nella stragrande maggioranza dei casi giovani, in buone condizioni fisiche e assai sensibili all’effetto stigmatizzante dell’essere equiparati a generici “disabili”).

 

Il fabbisogno di “posti letto”

 

La DGR 30 indica come riferimento per l’individuazione dello standard ottimale di “posti letto” di residenzialità psichiatrica il Progetto Obiettivo Nazionale del 1999 che prevede un posto  ogni 5000 abitanti. Tale riferimento risulta assai discutibile per varie ragioni:  non è esplicitato su quali dati scientifici si fondi; risale a circa sedici anni fa e non tiene conto dell’evoluzione dell’assistenza psichiatrica residenziale avvenuta nel frattempo; gli standard funzionali che lo stesso Progetto Obiettivo  prevede per le diverse articolazioni dei dipartimenti di salute mentale (centro di salute mentale, centro diurno, day hospital) sono ampiamente disattesi al ribasso, per quanto riguarda aspetti fondamentali come le dotazioni di personale e gli orari di apertura, e non capisce per quale ragione venga lamentato come anomalo solo il presunto esubero di posti residenziali.

Il primo studio quantitativo condotto con modalità scientifiche sulla residenzialità psichiatrica italiana (lo Studio Progres del 2000, già citato)  identificava un tasso di 2,98 posti ogni diecimila abitanti , quindi già al di sopra di quelli previsti dal Progetto Obiettivo, ma segnalava differenze di dieci volte fra Regioni diverse. Una analoga eterogeneità viene segnalata dalla DGR 30 in diversi territori della Regione Piemonte nel 2014; queste differenze non hanno tuttora trovato una valida spiegazione, né a livello nazionale né a livello regionale, ma non si può escludere che un corretto censimento funzionale potrebbe aiutare a comprenderle meglio.

Anche a questo scopo sarebbe fondamentale distinguere fra strutture con caratteristiche funzionali differenti, anziché considerare tutti insieme i “posti letto” residenziali, come se si trattasse di posti letto ospedalieri, ovvero strutture equivalenti. La necessità di garantire una “gamma” di opzioni residenziali, invocata dalla letteratura scientifica, e “percorsi di cura integrati”, previsti dalle normative nazionali vigenti (in particolare il Piano d’Azioni Nazionale per la salute mentale del 2013), fa sì che esistano strutture fra di loro complementari, che non possono essere considerate nello stesso insieme .

In particolare, le strutture “leggere” costituiscono un’alternativa a quelle “pesanti”, o, più spesso, fasi successive dello stesso percorso, indicate per pazienti diversi. In più, come già sottolineato, per ragioni del tutto fisiologiche, le comunità protette hanno maggiori probabilità di trovarsi in contesti extraurbani, quelle di civile abitazione in contesti urbani; queste ultime devono quindi, giocoforza, in molti casi assumere una connotazione terapeutica per comporre le necessarie reti integrate di prossimità.

Per tutte queste ragioni riteniamo del tutto inadeguata l’impostazione della DGR 30, che, per definire il fabbisogno, da una parte si riferisce ad astratti standard nazionali; dall’altra si limita a fotografare l’esistente, senza comprenderlo, attribuendo funzioni terapeutiche a una parte delle strutture solo perché già accreditate come CPA e CPB, nonostante il forte squilibrio di diffusione fra territori diversi, che pure lo stesso documento lamenta (in alcuni zone del Piemonte esiste una concentrazione di comunità protette, in altre zone sono quasi assenti); e disconoscendo il ruolo terapeutico di altre strutture, che pure lo esercitano da anni,  sulla base di irrilevanti motivazioni strutturali e burocratiche (l’avere caratteristiche di civile abitazione e il non avere ancora ricevuto un formale accrediamento).

La conseguenza degli errori di impostazione descritti non potrà che essere lo smantellamento indiscriminato della residenzialità piemontese, anziché la sua razionalizzazione ed efficientamento.

MODELLO LOMBARDO O SI CAMBIA VERSO? 2.0

 

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata anche dalla Giunta Chiamparino , è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi, dopo l’approvazione della 357, è andato in una direzione molto diversa: la DCR non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008, sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture almeno a intermedia intensità riabilitativa (SRP2) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

DGR SAITTA considerazioni critiche e proposte di miglioramento

La DGR Saitta inserisce d’autorità tutte le strutture classificate come gruppi appartamento secondo la DCR 357, nella categoria SRP3 secondo il modello Agenas-Gism: ovvero le considera tutte come strutture prive di una funzione terapeutica-riabilitativa, che possono garantire solo interventi di taglio assistenziale a bassa intensità, per pazienti con patologie lievi, croniche e stabilizzate.

Si tratta di un grave errore concettuale e di un’affermazione che non tiene conto della realtà dei fatti: forse un equivoco, dovuto all’uso comune del termine gruppo appartamento per indicare strutture molto diverse fra di loro.

Confidiamo che il previsto censimento dei pazienti inseriti e dei loro bisogni chiarirà finalmente la questione. La tanto sottolineata differenza di costi e di diffusione dei gruppi appartamento in diversi territori piemontesi non è detto che rifletta solo caos e cattiva gestione; è anche frutto del fatto che, in assenza di una programmazione centralizzata da parte della Regione, i Dipartimenti di salute mentale si sono organizzati in maniera diversa. Un po’ per differenze nell’impostazione culturale, un po’ per ragioni oggettive, come le caratteristiche geografiche e sociali dei territori.

Ad esempio nelle aree metropolitane è stato molto più difficile reperire locali adatti a rispettare i rigidi requisiti strutturali previsti per le Comunità protette di tipo A e B a costi sostenibili. Nel 1997 la DCR 357, improvvidamente, conferiva un mandato terapeutico solo a CPA e CPB, prevedendo caratteristiche strutturali analoghe a quelle delle RAF: utili per anziani e disabili, ma del tutto superflue, e a volte controproducenti, per i pazienti psichiatrici. Di conseguenza le comunità protette hanno sviluppato quasi tutte caratteristiche strutturali “pesanti”: massimo dei posti letto previsti (20), per lo più in grandi stabili indipendenti, posti in aree periferiche o rurali, o addirittura dentro complessi di tipo para-ospedaliero, contigue ad altre strutture sanitarie.

E’ del tutto improprio sostenere che sia la pesantezza strutturale, di tipo para-ospedaliero, a conferire una funzione terapeutica alle comunità. Dalla legge 180 in poi, e alla luce di tutta la letteratura internazionale, nessuno può seriamente sostenere che per riabilitare i pazienti psichiatrici serva l’ospedale o strutture che dell’ospedale riproducono la logica ambientale e organizzativa. Infatti le CPA e CPB più serie ed efficaci, nonostante i criteri della 357, fanno di tutto per non sembrare e non funzionare come ospedali in miniatura.

Diversi Dipartimenti di salute mentale piemontesi, e molti gestori privati, (soprattutto, ma non solo, nelle aree metropolitane) hanno risolto in maniera diversa il problema, affidando una funzione terapeutica anche a strutture di civile abitazione. La 357 non lo prevedeva ma nemmeno lo vietava. Così, accanto ai gruppi appartamento leggeri anche in senso funzionale, rivolti a pazienti autonomi o bisognosi di sola assistenza, sono nate altre strutture, denominate gruppi appartamento ai sensi della 357, ma rivolte a pazienti molto più gravi e bisognosi di protezione ed intensità riabilitativa assai superiori. Vere e proprie strutture terapeutico riabilitative in contesti di civile abitazione: prive dei requisiti strutturali pesanti delle comunità protette, ma con dotazioni di personale, quantitative e qualitative, simili, a volte superiori, a quelle delle CPB.

I Dipartimenti che hanno seguito questa strategia (numerosi, ma non tutti, il che spiega in parte le differenze intra-regionali), pur in assenza di accreditamento, hanno stabilito rapporti contrattuali, di convenzione o appalto, con tutti i gruppi appartamento, e dunque ne conoscono nei dettagli l’organizzazione funzionale, gli standard di personale, i costi. Sanno quali hanno funzioni assistenziali (da SRP3), quali hanno funzione terapeutica (almeno da SRP2), e possono documentarlo con assoluta precisione.

La fondatezza di queste affermazioni emergerà con il previsto censimento, ma avremmo preferito che la Regione lo accertasse prima di usare la mannaia e decidere che i gruppi appartamento, solo perché condividono ancora la vecchia denominazione ex DCR 357, sono tutti assistenziali e dunque tutti extra-lea e dunque devono condividere tutti lo stesso costo pro-capite pro-die.

Ma prevedere funzioni terapeutico-riabilitative in normali alloggi di civile abitazione, per gruppi di pazienti inferiori a venti, è forse un azzardo? Viola qualche normativa relativa alla sicurezza? E’ una bizzarria locale, di qualche dipartimento piemontese troppo disinvolto, da sanare con urgenza?

Assolutamente no. Basta dare un’occhiata alle normative di altre Regioni importanti: in Lombardia, Lazio, Toscana, possono avere caratteristiche di civile abitazione anche strutture ad elevata e intermedia intensità terapeutica (SRP1 e 2) a totale carico della sanità, fino a dieci posti. In Emilia Romagna, Veneto e Puglia sono accreditate come SRP1 e 2 strutture di civile abitazione anche oltre i dieci posti; vengono solo richiesti alcuni requisiti strutturali aggiuntivi di buon senso (numero minimo di metri quadri per stanza, almeno un bagno, anche non attrezzato per disabili, ogni 4 posti e poco altro). Non si chiamano gruppi appartamento, ma hanno gli stessi standard funzionali e di personale di alcuni gruppi appartamento piemontesi operanti da anni.

Ad esempio un gruppo appartamento (con due nuclei da 5 posti) oggetto di una recente contrattualizzazione da parte di un ASL piemontese, rispetta lo standard di un rapporto dello 0,9 fra personale in servizio e utenti: quello che la Regione Veneto prevede per le Comunità Terapeutiche Riabilitative Protette di tipo 2 (classificate come SRP2), al 100% sanitarie, di massimo 14 posti e con requisiti di civile abitazione.

In Piemonte strutture di questo tipo ospitano oggi centinaia di pazienti gravi, spesso giovani e ancora instabili, in fase precoce di malattia, che l’applicazione della DGR costringerebbe ad espellere verso le uniche strutture accreditabili come SRP1 e 2 (le vecchie CPA e CPB), visto l’abbattimento degli standard di personale e la prevedibilissima impossibilità di pazienti e comuni di farsi carico delle rette al 60%, Tale inevitabile “deportazione” (spesso dai centri urbani verso zone rurali), per i pazienti costituirebbe un’inaccettabile regressione nel percorso di cura; e quindi, per la Regione, non certo un modo per spendere meglio i soldi, come dichiarato dall’Amministrazione, né tantomeno un risparmio, essendo le strutture di civile abitazione molto più convenienti, a parità di assistenza, rispetto a quelle in cui verrebbero dirottati i pazienti.

Sì, perché a parità di standard di personale, e nonostante il più ridotto numero di posti, le strutture di civile abitazione sono più economiche di circa il 15-20%: lo dimostrano dati pubblici, incontrovertibili e facilissimi da reperire. Infatti la leggerezza strutturale, unita alla flessibilità, consentono di realizzare economie di scala (funzionamento in rete, anche con condivisione di funzioni cruciali, come la copertura notturna o la pronta disponibilità, fra strutture diverse, fra di loro integrate).

Diverse ASL piemontesi hanno riconosciuto queste potenzialità dei gruppi appartamento terapeutici e dei progetti di domiciliarità ad essi integrati, favorendone la diffusione anche come strategia di controllo dei costi della residenzialità psichiatrica (al contrario di chi li considera come posti letto in eccesso rispetto agli standard e quindi spreco di risorse sanitarie).

Dove ciò è avvenuto, è stato possibile realizzare veri percorsi terapeutici integrati (come prescritto dal Piano d’Azioni Nazionale per la Salute mentale del 2013): dimissioni progettuali ed evolutive dalle strutture residenziali, con accompagnamento graduale dei pazienti verso una reale autonomia (progetti territoriali di domiciliarità) o verso situazioni di stabilità clinica, per le quali possono essere utili, anche a medio-lungo termine, i gruppi appartamento di taglio più assistenziale (SRP3 secondo il modello Agenas)

Al contrario, dove non è stata realizzata una rete intermedia di gruppi appartamento di tipo terapeutico, è spesso impossibile colmare il divario fra l’elevata protezione delle strutture comunitarie, gli appartamenti a bassa protezione, e il trattamento ambulatoriale ordinario, il che ha reso problematiche le dimissioni, gonfiando i costi della residenzialità psichiatrica.

Dal punto di vista clinico il punto di forza degli appartamenti è soprattutto la loro normalità: sono meno colpiti da stigma e pregiudizio sociale e sono più graditi da utenti e famiglie, in quanto abitazioni qualunque: come quelle in cui vivono tutti i cittadini, parte integrante del territorio. Obiettivo della riabilitazione psichiatrica è infatti di consentire a pazienti gravemente sofferenti di curarsi nel mondo normale, sfuggendo all’emarginazione e alla perdita dei diritti di cittadinanza.

In conclusione, formuliamo le seguenti proposte di miglioramento:
• le strutture di civile abitazione, ancora definite come gruppi appartamento, ma che possiedono dimostrabili standard terapeutico-riabilitativi, devono potersi accreditare come SRP2, ovvero come strutture residenziali psichiatriche ad intermedia intensità terapeutica. Come tali devono essere a totale carico del servizio sanitario nazionale e prevedere una durata definita dei trattamenti.
• Le uniche strutture da accreditare come SRP3, extra lea ai sensi del vigente Dpcm del 2001, dovrebbero essere quelle davvero a bassa assistenza: ovvero i gruppi appartamento coperti per fasce orarie, con prevalente personale di tipo assistenziale, rivolte a pazienti già autonomi o stabilizzati.
• Per tutte le strutture, escluse le CPA e CPB, dovrebbero essere previsti i criteri strutturali di civile abitazione, al massimo integrati da quelli richiesti da alcune Regioni, come Veneto, Emilia Romagna e Puglia. Dovrebbe essere cioè emendato il criterio della DGR che, vorrebbe imporre anche alle strutture di civile abitazione pesanti requisiti strutturali aggiuntivi (che nessuna delle Regioni citate prevede) come: ascensori, bagni per disabili, stanza operatori obbligatoria, bollatrice, segnaletica interna, ecc: forse utili in strutture per disabili o anziani, ma del tutto inutili, ed anzi controproducenti, in abitazioni per pazienti psichiatrici, la cui qualità e sicurezza non dipendono certo dall’essere forzate ad assumere standard da reparto ospedaliero.

MODELLO LOMBARDO, O SI CAMBIA VERSO? IN PIEMONTE GLI APPARTAMENTI SONO LEA!

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata negli anni scorsi dalla Regione Piemonte, e che confidiamo verrà superata dall’attuale Giunta, è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In effetti la DCR 357 definiva i gruppi appartamento come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”; fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti sempre di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi è andato in una direzione molto diversa: la DCR 357 non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una piccola percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008 (che qualche “tecnico d’area” della giunta Cota avrebbe voluto limitarsi a “fotocopiare”) sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture a intermedia o addirittura a elevata intensità riabilitativa (SRP2 o SRP1) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

Escludere dai LEA la riabilitazione psichiatrica? Ecco perché è un’idea anti-scientifica e anti-economica

 LA VECCHIA AMMINISTRAZIONE REGIONALE PIEMONTESE HA ESCLUSO DAI LEA (i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni cui tutti i cittadini hanno diritto gratuitamente) i principali capisaldi della riabilitazione psichiatrica: borse lavoro, assegni terapeutici e  residenzialità leggera, tra cui, in primo luogo, i gruppi appartamento.

La motivazione addotta è di tipo economico e la responsabilità della scelta viene indebitamente attribuita al governo nazionale. In una Deliberazione del 21 maggio 2014, 4 giorni prima delle elezioni, la Giunta Cota scrive:

Nell’ambito della verifica dell’attuazione del Piano di rientro della spesa sanitaria, il tavolo nazionale di verifica e monitoraggio dei LEA ha richiesto alla Regione Piemonte  il riallineamento delle quote di compartecipazione alla spesa da parte del servizio sanitario regionale, prevedendo che le Asl, a decorrere dal gennaio 2014, non possano più scrivere nei loro bilanci risorse per prestazioni aggiuntive oltre i Lea previsti a livello nazionale”.

E specifica: “Tra queste prestazioni aggiuntive, particolare rilievo assumono  quelle relative agli assegni terapeutici per pazienti psichiatrici alternativi al ricovero in struttura, alle borse lavoro per pazienti psichiatrici, alla copertura della quota sociale per i gruppi appartamento psichiatrici”. (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/25/attach/dgr_07629_070_21052014.pdf)

La normativa nazionale a cui si fa riferimento è il D.P.C.M 14/02/2001, Allegato 1, punto 1.c, dove si parla di “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali è stata prevista una percentuale di costo  non attribuibile alle risorse finanziarie  destinate al S.S.N.”

(http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

E’ davvero difficile comprendere come la delibera regionale abbia potuto ritenere applicabile questa definizione agli assegni terapeutici, alle borse lavoro (cioè ai tirocini a valenza terapeutico riabilitativa) e ai gruppi appartamento psichiatrici (la cosiddetta “residenzialità leggera”)

Si tratta, infatti, di prestazioni che hanno una chiara e inequivoca natura terapeutico-riabilitativa; forse, in assoluto, le più coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica, così come è oggi definita a livello internazionale. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf) Non è sostenibile che, in esse, la componente sanitaria e quella sociale non siano distinguibili. 

Perché sia da considerarsi sanitario, un intervento deve possedere alcuni requisiti e la riabilitazione psichiatrica li possiede tutti. In primo luogo, serve a migliorare gravi problemi di salute. In secondo luogo si avvale di tecniche validate, che richiedono una competenza professionale specifica, e hanno un’efficacia comprovata con metodo scientifico, e riconosciuta da milioni di utenti e familiari che ne usufruiscono da decenni in tante parti del mondo. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf)

Sociali sono gli ambiti di applicazione dei risultati (vivere in autonomia, lavorare, formarsi una famiglia, ecc.) e psicosociali sono gli strumenti operativi, ma non certo il processo in sé.

I disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone; la compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui migliorare il funzionamento e l’inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario.

Inoltre, è noto che il ricorso ampio e strutturato a programmi riabilitativi territoriali, come quelli di domiciliarità e di residenzialità leggera, è la strategia più efficace per ridurre i principali capitoli di  spesa dei dipartimenti di salute mentale: i ricoveri in ospedale e casa di cura e, soprattutto, le strutture residenziali “pesanti”.

L’applicazione della delibera del 21 maggio scorso avrebbe dunque conseguenze disastrose dal punto di vista clinico, e sortirebbe l’effetto opposto a quello ipotizzato, dal punto di vista economico.

Cercheremo di argomentare nel modo più preciso possibile ognuna di queste affermazioni.

CHE COSA, IN SALUTE MENTALE, SI PUO’ CONSIDERARE TERAPEUTICO-RIABILITATIVO, dunque integralmente sanitario?

La risposta va cercata nella letteratura scientifica internazionale e non certo nelle normative o nelle delibere regionali. D’altra nessuna normativa nazionale si è mai sognata di contraddire i principi della letteratura, né di escludere la riabilitazione psichiatrica dai livelli essenziali di assistenza.

Lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M. 2001 chiamato in causa, include fra le prestazioni a carico totale del Servizio sanitario nazionale, a pagina 33: “le prestazioni ambulatoriali, riabilitative e socio-riabilitative presso il domicilio”; a pagina 35: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime semiresidenziale”; a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

Tuttavia, nella stessa pagina 38 del D.P.C.M. appare il paragrafo che è stato utilizzato dalla vecchia Giunta, con un‘interpretazione a nostro avviso fuorviante, per giustificare il declassamento ad extra-LEA.  In esso si prevede una compartecipazione del 60% da parte dell’utente o del Comune per “accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale e programmi di inserimento sociale e lavorativo”. Consideriamo ciascuno di questi punti, cominciando dall’ultimo:

  • 1. programmi di inserimento lavorativo. L’equivoco riguarda la differenza fra diritto all’accesso al mondo del lavoro per le persone svantaggiate (obiettivo chiaramente sociale) e interventi riabilitativi sulle abilità lavorative (obiettivo chiaramente sanitario).

Le cosiddette borse lavoro, meglio definite come tirocini lavorativi a carattere terapeutico-riabilitativo, rientrano senza il minimo dubbio nella seconda categoria. Non hanno l’obiettivo di garantire al paziente un posto di lavoro, né un reddito minimo, bensì di agire sulle difficoltà di funzionamento relazionale, correlate alla patologia, rilevanti ai fini della sua capacità di trovare e mantenere un’occupazione. Essendo la disfunzione relazionale in ambito lavorativo conseguenza diretta della patologia, l’intervento correttivo sulla disfunzione ha natura esclusivamente sanitaria.

Il fatto che il lavoro riguardi la dimensione sociale dell’individuo non rende la riabilitazione lavorativa un fenomeno sociale, così come la rilevanza sociale della deambulazione non declassa a fenomeno sociale la riabilitazione motoria. L’effettivo reperimento di un posto di lavoro non è l’obiettivo dei tirocini riabilitativi; semmai può essere considerato un indicatore di esito della loro efficacia, e come tale viene utilizzato nella ricerca scientifica internazionale http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2800143/

Anche il fatto che, in alcune situazioni, le borse lavoro si protraggano per anni, non toglie nulla alla loro natura riabilitativa. Molte altre tecniche psichiatriche vengono utilizzate in modo continuativo per anni, come ad esempio i gruppi riabilitativi in contesti semiresidenziali e residenziali; lo stesso avviene per patologie croniche non psichiatriche, come ad esempio quelle neurologiche degenerative, che richiedono interventi riabilitativi protratti nel tempo per mantenere la abilità acquisite.

Utilizzando la classificazione del D.P.C.M. del 2001 che norma i LEA, le borse lavoro non dovrebbero essere inserite fra i programmi di inserimento lavorativo (che pure esistono e talvolta i Csm gestiscono, in collaborazione con altri enti, come i centri per l’impiego e i comuni) bensì fra gli interventi riabilitativi; in particolare quelli previsti a domicilio, visto che la dicitura non può essere intesa come il domicilio fisico, ma riferita ai pazienti che vivono a domicilio, e dunque intesa come sinonimo di intervento territoriale; oppure in contesto semiresidenziale.

  • 2. programmi d’inserimento sociale Il DPCM del 2001 non si dilunga a spiegare di che cosa si tratti. La vecchia Giunta del Piemonte sembra intenderli come sinonimo di progetti sostenuti da assegni terapeutici (termine che nel documento nazionale sui LEA non viene mai citato).

Si tratta di un altro grave fraintendimento. Anche se spesso, nel linguaggio comune dei servizi, vengono definiti “sussidi”, gli assegni terapeutici non hanno affatto una natura sociale; non servono a garantire l’inserimento sociale attraverso il sostegno al reddito.

Il termine stesso ne delimita il profilo, che è rivolto a realizzare obiettivi terapeutico-riabilitativi sul territorio, in situazioni in cui non è possibile, o non è utile, un intervento economico di tipo sociale o assistenziale.

Ad esempio, è terapeutico l’assegno che serve ad acquistare un abbonamento dell’autobus o del treno, per un paziente che deve partecipare a un programma riabilitativo mirato all’uso dei mezzi di trasporto pubblico, se il paziente non ha diritto a conseguire, o non è clinicamente utile che consegua al momento, diversi supporti sociali (come ad esempio una percentuale d’invalidità che gli consentirebbe la libera circolazione sui mezzi).

Ma, spesso, il più importante uso degli assegni terapeutici da parte dei Centri di salute mentale è quello di sostegno ai cosiddetti progetti di domiciliarità.

Non si tratta di interventi volti a garantire il diritto all’abitare (obiettivo di tipo sociale, che spetta ai Comuni e all’Agenzia Territoriale della Casa) ma di programmi terapeutico-riabilitativi, che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Csm.

L’obiettivo è profondamente coerente con i principi della riabilitazione psichiatrica: fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009) http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf

Vivere, e curarsi, a domicilio (sia che si tratti del proprio, o di un’abitazione conseguita con il supporto anche economico del servizio) ha il significato di un addestramento e di un percorso di crescita; sfruttare un contesto privilegiato per sviluppare le risorse emotive e interpersonali che la patologia indebolisce, e che vengono stimolate in modo molto più efficace in un contesto di normale abitazione, piuttosto che in un’istituzione sanitaria.

La domiciliarità è una tecnica riabilitativa insostituibile, rivolta a persone con patologie gravi e persistenti, la cui rilevanza sanitaria è lampante e niente affatto indistinguibile dagli interventi sociali.

Storicamente, nella realtà dei servizi piemontesi si è sviluppata nella cornice istituzionale dei cosiddetti progetti individuali territoriali (anch’essi oggetto di bruschi tentativi di ridimensionamento da parte della vecchia amministrazione regionale nel 2013), per acquisire, col tempo, un’identità propria.

Ha molti punti in comune, dal punto di vista teorico e organizzativo, con modelli riabilitativi accreditati a livello internazionale, come l’Assertive Community Treatment (ATC) http://store.samhsa.gov/shin/content//SMA08-4345/BuildingYourProgram-ACT.pdf

  • 3. accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale. Questa definizione viene intesa dalla delibera della Giunta Cota come applicabile a tutti i gruppi appartamento. Nelle bozze di delibere, mai approvate, sulla regolamentazione delle residenzialità leggera, era estesa anche alle comunità alloggio e quindi a tutte le strutture diverse dalle comunità protette di tipo A e B.

Riservare alle sole strutture residenziali “pesanti” un puro carattere sanitario equivale al considerarle gli unici strumenti con un pieno potenziale terapeutico riabilitativo. In più, il fatto che rimangano le uniche strutture per cui è garantita l’assoluta gratuità per i pazienti, le loro famiglie e per i servizi sociali, porterebbe inevitabilmente a incrementarne l’utilizzo, molto al di là di quanto sia necessario dal punto di vista clinico, per pure ragioni economiche.

La vecchia normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica, D.C.R. 357 del 1997, stabiliva una correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa e caratteristiche strutturali; prevedeva, per le comunità protette di tipo A e B, cui era affidato il compito teorico di assicurare gli interventi più intensivi, requisiti abitativi analoghi a quelli di strutture sanitarie simil-ospedaliere, per quanto riguarda metratura, impianti sanitari, accessibilità. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

Tali requisiti sono realizzabili solo in ambiti abitativi ampi, in grado di ospitare un numero consistente di pazienti: almeno venti, con la possibilità di affiancare più unità da venti posti nello stesso comprensorio. Strutture di questo tipo difficilmente trovano collocazione in ambito urbano, sono molto costose da acquisire e da gestire, per cui non possono sostenersi con un numero di pazienti inferiore a quello massimo previsto (non risulta che operino in Piemonte CPA o CPB con un numero di posti inferiore a 20, nonostante la normativa di per sé non lo vieti).

La residenzialità psichiatrica piemontese, nella sua evoluzione concreta, è andata oltre a questo limite, approfittando della flessibilità concessa dalla stessa DCR 357, che non prevedeva standard di personale rigidi per le strutture “leggere”, come i gruppi appartamento e le comunità alloggio.

Hanno potuto nascere strutture di dimensioni assai più ridotte ( da 5 o 6 fino a 10-12 ospiti), con caratteristiche di civile abitazione, non simili a istituzioni sanitarie tradizionali, collocate più facilmente nei centri urbani, ma con dotazioni di personale e organizzazione tali da garantire interventi ad elevata o intermedia intensità riabilitativa, potendo porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, a CPA e CPB.

E’ stato così dimostrato che le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di “terapeuticità” delle strutture leggere, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali; il secondo è il numero più ridotto di utenti che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo.

Le strutture leggere organizzate con questa logica non hanno nulla a che fare con l”accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale”: sono vere strutture riabilitative.

Non è dunque accettabile alcun automatismo, come quello che proponeva sulla carta (per poi contraddirlo nei fatti), la DCR 357; la leggerezza strutturale non significa, in automatico, leggerezza funzionale. 

L’esclusione, ex lege, dai LEA dovrebbe riguardare solo quelle strutture, pur esistenti, che hanno davvero una connotazione assistenziale a bassa soglia, e non tutte le strutture finora classificate come gruppi appartamento o comunità alloggio.

Mantenere all’interno delle prestazioni essenziali le strutture leggere a connotazione terapeutico riabilitativa, naturalmente, non impedirebbe di prevedere modalità personalizzate di contribuzione economica da parte degli utenti, come già ora avviene in molto situazioni, all’interno dei progetti terapeutici individuali.

QUAL E’ L’IMPATTO ECONOMICO DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA?

I progetti di riabilitazione territoriale che la delibera della vecchia Giunta regionale ha escluso dai LEA, quando organizzati in maniera efficiente, hanno l’effetto di ridurre la spesa complessiva dei Dipartimenti di salute mentale. In particolare, la residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002 http://bjp.rcpsych.org/content/181/3/220.long) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti.

Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23712514), su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione.

Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Negli ultimi anni, molti servizi, sviluppando in maniera strutturata reti di residenzialità leggera e progetti integrati di domiciliarità, sono riusciti a ridurre la spesa residenziale complessiva; sia agendo in senso preventivo, per evitare nuovi inserimenti, sia rendendo possibili dimissioni da strutture a costo elevato.

Sarebbe auspicabile che questi dati venissero resi noti il prima possibile agli Amministratori regionali e a tutti gli utenti e operatori della salute mentale.

Le prestazioni a rischio di ridimensionamento con l’esclusione dai LEA  (borse lavoro, progetti di domiciliarità, residenzialità leggera) sono  strumenti di comprovata efficacia dal punto di vista clinico ed economico. Proseguire nella direzione della Delibera del 21 maggio 2014, comporterebbe un grave peggioramento della qualità dei servizi riabilitativi psichiatrici nella Regione Piemonte e  avrebbe conseguenze economiche opposte a quelle dichiarate, perché comporterebbe un netto aumento della spesa, a vantaggio di progetti residenziali ad elevata protezione e costo.