MODELLO LOMBARDO, O SI CAMBIA VERSO? IN PIEMONTE GLI APPARTAMENTI SONO LEA!

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata negli anni scorsi dalla Regione Piemonte, e che confidiamo verrà superata dall’attuale Giunta, è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In effetti la DCR 357 definiva i gruppi appartamento come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”; fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti sempre di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi è andato in una direzione molto diversa: la DCR 357 non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una piccola percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008 (che qualche “tecnico d’area” della giunta Cota avrebbe voluto limitarsi a “fotocopiare”) sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture a intermedia o addirittura a elevata intensità riabilitativa (SRP2 o SRP1) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

Contributi 1

Riceviamo e pubblichiamo integralmente il contributo accorato di un infermiere che lavora da anni in psichiatria.

I concetti espressi con forza al limite dell’esistenzialismo ci paiono degni di nota e mai troppo ripetuti.

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Nell’anno 1978 la legge Basaglia chiuse in Italia l’esperienza del manicomio come strumento di “cura” della sofferenza psichica; la legge fu varata al culmine di fortissime spinte politiche e sociali, che in quegli anni stavano cercando di ridisegnare i rapporti del vivere civile, in senso partecipativo e popolare. Proprio per questo motivo, la legge Basaglia contiene in sé l’istanza del rifiuto della segregazione e dell’esclusione sociale, che stavano sostanzialmente alla base del costrutto, fisico ma soprattutto concettuale, del manicomio. L’uscita da questo cortocircuito ha determinato, negli anni a venire, una restituzione della sofferenza psichica alla vita sociale: cioè la resa dei conti con chi aveva contribuito alla creazione di questo malessere, per poi pretendere di non farsene carico. Di questo cortocircuito erano poi di fatto costituite le mura dei manicomi: una separazione artificiosa da quella che è evidentemente un’idea scomoda, cioè quella di essere responsabili. Della genesi innanzitutto, e della gestione, in seconda battuta, della sofferenza psichica. Non a caso la legge che istituì il manicomio, nell’anno 1904, parlava di “pubblico scandalo”, consentendo di fatto di togliere dalla strada, da casa,dalla piazza, persone il cui comportamento poteva suscitare noia, ilarità o più probabilmente disprezzo, nella maggioranza della popolazione. Senza tenere in conto che sovente quel genere di comportamento era legato ad una sofferenza profonda, e piena di significati, che un reale progetto di cura avrebbe dovuto tenere principalmente in considerazione. Perché di questo si tratta: la sofferenza mentale è molto spesso, quasi sempre, legata alla costruzione ed alla dinamica dei rapporti interpersonali. E’ probabilmente la malattia più sociale di cui soffriamo. L’istituzione manicomiale aveva di fatto permesso alla nostra società di operare una netta separazione tra chi era ritenuto psichicamente sano e che invece era stato catalogato, spesso in modo completamente arbitrario, come malato. La costruzione di muri di cinta, l’esclusione dalla vita sociale e la ghettizzazione erano il risultato operativo di questa forma di pensiero. La legge Basaglia ha ribaltato la questione, restituendo al nostro vivere insieme questa responsabilità. Una delle possibilità umane eticamente più elevate, ma senza dubbio più difficili: la responsabilità della condivisione.

Generalmente noi tutti siamo portati a fuggire istintivamente il dolore, scegliendo in modo difensivo e superficiale le strade che più ci allontanano da esso. Atteggiamento più che comprensibile, ma che non può portarci molto lontano, perché presto o tardi saremo noi ad avere bisogno di condividere il nostro dolore con gli altri; chiunque sia già passato per questa strada potrà sottoscrivere questo pensiero. Condividere non significa risolvere il problema della sofferenza, quanto piuttosto “attraversarla con”.

Ci sono delle immagini che ritengo significative della parola ATTRAVERSARE, nel senso interiore del termine. In particolare, penso ai passi di una persona che cammina in una landa desolata di un deserto. Il calore che brucia sotto la pianta dei piedi, il caldo che le taglia il fiato e tutto intorno una distesa di sabbia sempre uguale, il panorama dell’impossibilità. IMPOSSIBILITA’: uso questa parola monumentale per dire che ogni uragano di vivere sposta i granelli di sabbia, trascinandoli nell’aria sotto forma di mulinelli, e li deposita in modo completamente diverso su se stessi, ridisegnando in pochi istanti l’intera sagoma del deserto. Soltanto che noi non siamo in grado di accorgercene, perché le dune si somigliano troppo per poterle distinguere. Quest’impossibilità ha molto spesso a che fare con il dolore, quasi sempre con il dolore degli altri. Questo dovrebbe bastare a farci capire la difficoltà estrema nel ridistinguere le dune dei nostri percorsi interiori, e di fronte a quale deserto si trovi chiunque debba relazionarsi con il dolore degli altri.

La sofferenza profonda è sovente poco comprensibile, e comunque mai del tutto; perché noi siamo troppo piccoli per poter comprendere l’altro fino in fondo. Uno dei problemi da affrontare è legato a questo genere di frustrazione, che a volte ci scoraggia nell’avvicinare una persona con una sofferenza psichica. Occorre tenere presente sempre che la condivisione di fatto non è che un tentativo. E che quindi è soprattutto fatta di errori ,di cose che pensavamo di aver capito e invece avevamo completamente frainteso. La domanda che ci si potrebbe porre è per quale motivo noi dovremmo farci carico di tentare di gestire questa sofferenza scendendo nel buio della profondità: la risposta è quella intuitivamente più semplice, e cioè che questo dolore ci appartiene anche come nostra eventualità personale. E’ nell’appartenenza stessa di questo dolore, che vive per intero e per noi tutti la possibilità di provare a comprendere, tenendo presenti tutti i limiti strutturali a nostro carico. Perché quella della condivisione è anche una responsabilità che abbiamo verso noi stessi, se vogliamo che un giorno qualcuno possa cercare di attraversare il deserto della nostra sofferenza.

E’ questa, la pietra: pur di non arrivare all’attraversamento, pur di tagliare corto per non doverci occupare di cose così impegnative, abbiamo costruito le mura del manicomio, creato l’istituzione carceraria, separato i buoni dai cattivi, i sani dai malati, i ricchi dai poveri. Edificando in questo modo le cattedrali del nostro nulla, e delle nostre belle parole, indossando camici bianchi, appendendo certificati di laurea in bella mostra sulla parete del soggiorno. Pur di tenere lontano la sofferenza, perché non ci riguardasse, abbiamo partorito l’aberrazione chiamata “senno di poi”. Il senno, cioè la saggezza; una parola che sembra esistere unicamente per parlare di un dopo, come se la saggezza fosse patrimonio soltanto delle cose conosciute; come se solo e unicamente dal finale di una storia, o di una vita, si potesse ricostruirne per intero il significato. Quello che mi sembra di aver capito, invece, è che non esiste una saggezza maggiore che quella del mentre, dell’attraversare. L’atto di attraversare, del camminare attraverso il deserto, nostro e degli altri, contiene in sé un patto di accettazione della nostra clamorosa piccolezza. Cioè l’arma potenzialmente più rivoluzionaria che ogni essere umano possiede,quasi sempre senza saperlo. Ammettere di non conoscere, ammettere di non aver capito, ammettere di non sapere che cosa fare, o che cosa dire di fronte al dolore, nostro ed altrui: procedere per ipotesi, e per errori, nella condivisione della sofferenza, significa esattamente attraversarla. Si può “attraversare con” anche senza dire una parola. Questo per dire dell’importanza di una presenza fisica, della profondità del silenzio e del rispetto che si deve a chi sta lottando con le ombre dei propri pensieri. Smettere di credere l’inverosimile, e cioè che tutto questo non ci riguardi direttamente, equivale a riconoscere il dolore come espressione della fragilità umana. Perché ciò che socialmente pensiamo di fare nei confronti dei più deboli equivale a ciò che pensiamo di fare di noi stessi.

L’attraversamento è forse, per le cose che mi pare di avere compreso, una delle esperienze umane più sfaccettate, più complesse. Ci si dice mille volte quanto sia intollerabile il dolore che abbiamo tra le mani, piuttosto che quanto sia irraggiungibile la sofferenza dell’altro. Che poi sono altri modi per allontanare da noi l’idea che quella sofferenza possa essere compresa, anche se solo in parte, e quindi attraversata.

E’ questa, la sabbia del deserto: venire a patti col pensiero della non ragionevolezza del dolore, della malattia. Nonché con un quadro un po’ più onesto di quali siano i nostri limiti. Perché la malattia umana ci appartiene indistintamente. Il peso specifico di quest’idea è la sola alternativa al senno di poi, allo stucchevole riavvolgimento del nastro con le foto in bianco e nero degli scheletri di Auschwitz, piuttosto che dei materassi pieni di feci e urina trovati dentro ai manicomi; tutte cose che fecero gridare allo scandalo, indignando la cosiddetta “società civile”, la benpensante società civile, cioè noi tutti. Gli unici responsabili di quell’ignominia. Invece di gridare allo scandalo, riavvolgendo il canovaccio, dovremmo forse fare tesoro della nostra fragilità, e perdonarci per questo. Costruendo, per noi stessi e per gli altri, il miracolo del conforto.

Chi di noi ha indagato la questione più da vicino, converrà che il dolore è probabilmente inscindibile dalla stessa esperienza di vivere, e come tale non soltanto può, ma deve essere attraversato. Perché per un sogno andato in pezzi ce ne saranno altri, da mandare in frantumi: non c’è un altro modo per generare nuove strade, nuovi percorsi. E’ l’eredità lasciataci dall’attraversamento: che il cumulo di vetri rotti alle nostre spalle possa alla fine strapparci anche un sorriso, che è la memoria del nostro essere vivi, e soffrirne di conseguenza.

Alla storia del genere umano appartengono poi tristemente anche i tifosi della superiorità della razza, i sostenitori della guerra come igiene del mondo e gli ultrà della pena di morte: a noi il compito di sbarrare loro la strada. La legge Basaglia e la psichiatria territoriale ci raccontano anche questo: per ogni barriera che abbiamo costruito coi mattoni della nostra paura, ci sarà un deserto da attraversare, senza dimenticarci mai che non c’è un dolore più forte di quello che cerchiamo di tenere lontano, perché niente in noi potrà più nascere, né morire.

Pensare oggi di mantenere vivi i servizi territoriali, il loro patrimonio di operatori, e di esperienza, significa scegliere di investire per un futuro differente dal nostro vergognoso passato.

Per quanto imponenti siano in termini di impegno, sacrificio e dedizione, esistono cose possono abbattere qualunque muro, spazzare via qualsiasi letto d’ospedale, qualsiasi gabbia, manicomio o galera: la vicinanza al dolore ,è una di queste.

 

Escludere dai LEA la riabilitazione psichiatrica? Ecco perché è un’idea anti-scientifica e anti-economica

 LA VECCHIA AMMINISTRAZIONE REGIONALE PIEMONTESE HA ESCLUSO DAI LEA (i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni cui tutti i cittadini hanno diritto gratuitamente) i principali capisaldi della riabilitazione psichiatrica: borse lavoro, assegni terapeutici e  residenzialità leggera, tra cui, in primo luogo, i gruppi appartamento.

La motivazione addotta è di tipo economico e la responsabilità della scelta viene indebitamente attribuita al governo nazionale. In una Deliberazione del 21 maggio 2014, 4 giorni prima delle elezioni, la Giunta Cota scrive:

Nell’ambito della verifica dell’attuazione del Piano di rientro della spesa sanitaria, il tavolo nazionale di verifica e monitoraggio dei LEA ha richiesto alla Regione Piemonte  il riallineamento delle quote di compartecipazione alla spesa da parte del servizio sanitario regionale, prevedendo che le Asl, a decorrere dal gennaio 2014, non possano più scrivere nei loro bilanci risorse per prestazioni aggiuntive oltre i Lea previsti a livello nazionale”.

E specifica: “Tra queste prestazioni aggiuntive, particolare rilievo assumono  quelle relative agli assegni terapeutici per pazienti psichiatrici alternativi al ricovero in struttura, alle borse lavoro per pazienti psichiatrici, alla copertura della quota sociale per i gruppi appartamento psichiatrici”. (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/25/attach/dgr_07629_070_21052014.pdf)

La normativa nazionale a cui si fa riferimento è il D.P.C.M 14/02/2001, Allegato 1, punto 1.c, dove si parla di “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali è stata prevista una percentuale di costo  non attribuibile alle risorse finanziarie  destinate al S.S.N.”

(http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

E’ davvero difficile comprendere come la delibera regionale abbia potuto ritenere applicabile questa definizione agli assegni terapeutici, alle borse lavoro (cioè ai tirocini a valenza terapeutico riabilitativa) e ai gruppi appartamento psichiatrici (la cosiddetta “residenzialità leggera”)

Si tratta, infatti, di prestazioni che hanno una chiara e inequivoca natura terapeutico-riabilitativa; forse, in assoluto, le più coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica, così come è oggi definita a livello internazionale. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf) Non è sostenibile che, in esse, la componente sanitaria e quella sociale non siano distinguibili. 

Perché sia da considerarsi sanitario, un intervento deve possedere alcuni requisiti e la riabilitazione psichiatrica li possiede tutti. In primo luogo, serve a migliorare gravi problemi di salute. In secondo luogo si avvale di tecniche validate, che richiedono una competenza professionale specifica, e hanno un’efficacia comprovata con metodo scientifico, e riconosciuta da milioni di utenti e familiari che ne usufruiscono da decenni in tante parti del mondo. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf)

Sociali sono gli ambiti di applicazione dei risultati (vivere in autonomia, lavorare, formarsi una famiglia, ecc.) e psicosociali sono gli strumenti operativi, ma non certo il processo in sé.

I disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone; la compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui migliorare il funzionamento e l’inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario.

Inoltre, è noto che il ricorso ampio e strutturato a programmi riabilitativi territoriali, come quelli di domiciliarità e di residenzialità leggera, è la strategia più efficace per ridurre i principali capitoli di  spesa dei dipartimenti di salute mentale: i ricoveri in ospedale e casa di cura e, soprattutto, le strutture residenziali “pesanti”.

L’applicazione della delibera del 21 maggio scorso avrebbe dunque conseguenze disastrose dal punto di vista clinico, e sortirebbe l’effetto opposto a quello ipotizzato, dal punto di vista economico.

Cercheremo di argomentare nel modo più preciso possibile ognuna di queste affermazioni.

CHE COSA, IN SALUTE MENTALE, SI PUO’ CONSIDERARE TERAPEUTICO-RIABILITATIVO, dunque integralmente sanitario?

La risposta va cercata nella letteratura scientifica internazionale e non certo nelle normative o nelle delibere regionali. D’altra nessuna normativa nazionale si è mai sognata di contraddire i principi della letteratura, né di escludere la riabilitazione psichiatrica dai livelli essenziali di assistenza.

Lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M. 2001 chiamato in causa, include fra le prestazioni a carico totale del Servizio sanitario nazionale, a pagina 33: “le prestazioni ambulatoriali, riabilitative e socio-riabilitative presso il domicilio”; a pagina 35: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime semiresidenziale”; a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

Tuttavia, nella stessa pagina 38 del D.P.C.M. appare il paragrafo che è stato utilizzato dalla vecchia Giunta, con un‘interpretazione a nostro avviso fuorviante, per giustificare il declassamento ad extra-LEA.  In esso si prevede una compartecipazione del 60% da parte dell’utente o del Comune per “accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale e programmi di inserimento sociale e lavorativo”. Consideriamo ciascuno di questi punti, cominciando dall’ultimo:

  • 1. programmi di inserimento lavorativo. L’equivoco riguarda la differenza fra diritto all’accesso al mondo del lavoro per le persone svantaggiate (obiettivo chiaramente sociale) e interventi riabilitativi sulle abilità lavorative (obiettivo chiaramente sanitario).

Le cosiddette borse lavoro, meglio definite come tirocini lavorativi a carattere terapeutico-riabilitativo, rientrano senza il minimo dubbio nella seconda categoria. Non hanno l’obiettivo di garantire al paziente un posto di lavoro, né un reddito minimo, bensì di agire sulle difficoltà di funzionamento relazionale, correlate alla patologia, rilevanti ai fini della sua capacità di trovare e mantenere un’occupazione. Essendo la disfunzione relazionale in ambito lavorativo conseguenza diretta della patologia, l’intervento correttivo sulla disfunzione ha natura esclusivamente sanitaria.

Il fatto che il lavoro riguardi la dimensione sociale dell’individuo non rende la riabilitazione lavorativa un fenomeno sociale, così come la rilevanza sociale della deambulazione non declassa a fenomeno sociale la riabilitazione motoria. L’effettivo reperimento di un posto di lavoro non è l’obiettivo dei tirocini riabilitativi; semmai può essere considerato un indicatore di esito della loro efficacia, e come tale viene utilizzato nella ricerca scientifica internazionale http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2800143/

Anche il fatto che, in alcune situazioni, le borse lavoro si protraggano per anni, non toglie nulla alla loro natura riabilitativa. Molte altre tecniche psichiatriche vengono utilizzate in modo continuativo per anni, come ad esempio i gruppi riabilitativi in contesti semiresidenziali e residenziali; lo stesso avviene per patologie croniche non psichiatriche, come ad esempio quelle neurologiche degenerative, che richiedono interventi riabilitativi protratti nel tempo per mantenere la abilità acquisite.

Utilizzando la classificazione del D.P.C.M. del 2001 che norma i LEA, le borse lavoro non dovrebbero essere inserite fra i programmi di inserimento lavorativo (che pure esistono e talvolta i Csm gestiscono, in collaborazione con altri enti, come i centri per l’impiego e i comuni) bensì fra gli interventi riabilitativi; in particolare quelli previsti a domicilio, visto che la dicitura non può essere intesa come il domicilio fisico, ma riferita ai pazienti che vivono a domicilio, e dunque intesa come sinonimo di intervento territoriale; oppure in contesto semiresidenziale.

  • 2. programmi d’inserimento sociale Il DPCM del 2001 non si dilunga a spiegare di che cosa si tratti. La vecchia Giunta del Piemonte sembra intenderli come sinonimo di progetti sostenuti da assegni terapeutici (termine che nel documento nazionale sui LEA non viene mai citato).

Si tratta di un altro grave fraintendimento. Anche se spesso, nel linguaggio comune dei servizi, vengono definiti “sussidi”, gli assegni terapeutici non hanno affatto una natura sociale; non servono a garantire l’inserimento sociale attraverso il sostegno al reddito.

Il termine stesso ne delimita il profilo, che è rivolto a realizzare obiettivi terapeutico-riabilitativi sul territorio, in situazioni in cui non è possibile, o non è utile, un intervento economico di tipo sociale o assistenziale.

Ad esempio, è terapeutico l’assegno che serve ad acquistare un abbonamento dell’autobus o del treno, per un paziente che deve partecipare a un programma riabilitativo mirato all’uso dei mezzi di trasporto pubblico, se il paziente non ha diritto a conseguire, o non è clinicamente utile che consegua al momento, diversi supporti sociali (come ad esempio una percentuale d’invalidità che gli consentirebbe la libera circolazione sui mezzi).

Ma, spesso, il più importante uso degli assegni terapeutici da parte dei Centri di salute mentale è quello di sostegno ai cosiddetti progetti di domiciliarità.

Non si tratta di interventi volti a garantire il diritto all’abitare (obiettivo di tipo sociale, che spetta ai Comuni e all’Agenzia Territoriale della Casa) ma di programmi terapeutico-riabilitativi, che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Csm.

L’obiettivo è profondamente coerente con i principi della riabilitazione psichiatrica: fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009) http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf

Vivere, e curarsi, a domicilio (sia che si tratti del proprio, o di un’abitazione conseguita con il supporto anche economico del servizio) ha il significato di un addestramento e di un percorso di crescita; sfruttare un contesto privilegiato per sviluppare le risorse emotive e interpersonali che la patologia indebolisce, e che vengono stimolate in modo molto più efficace in un contesto di normale abitazione, piuttosto che in un’istituzione sanitaria.

La domiciliarità è una tecnica riabilitativa insostituibile, rivolta a persone con patologie gravi e persistenti, la cui rilevanza sanitaria è lampante e niente affatto indistinguibile dagli interventi sociali.

Storicamente, nella realtà dei servizi piemontesi si è sviluppata nella cornice istituzionale dei cosiddetti progetti individuali territoriali (anch’essi oggetto di bruschi tentativi di ridimensionamento da parte della vecchia amministrazione regionale nel 2013), per acquisire, col tempo, un’identità propria.

Ha molti punti in comune, dal punto di vista teorico e organizzativo, con modelli riabilitativi accreditati a livello internazionale, come l’Assertive Community Treatment (ATC) http://store.samhsa.gov/shin/content//SMA08-4345/BuildingYourProgram-ACT.pdf

  • 3. accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale. Questa definizione viene intesa dalla delibera della Giunta Cota come applicabile a tutti i gruppi appartamento. Nelle bozze di delibere, mai approvate, sulla regolamentazione delle residenzialità leggera, era estesa anche alle comunità alloggio e quindi a tutte le strutture diverse dalle comunità protette di tipo A e B.

Riservare alle sole strutture residenziali “pesanti” un puro carattere sanitario equivale al considerarle gli unici strumenti con un pieno potenziale terapeutico riabilitativo. In più, il fatto che rimangano le uniche strutture per cui è garantita l’assoluta gratuità per i pazienti, le loro famiglie e per i servizi sociali, porterebbe inevitabilmente a incrementarne l’utilizzo, molto al di là di quanto sia necessario dal punto di vista clinico, per pure ragioni economiche.

La vecchia normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica, D.C.R. 357 del 1997, stabiliva una correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa e caratteristiche strutturali; prevedeva, per le comunità protette di tipo A e B, cui era affidato il compito teorico di assicurare gli interventi più intensivi, requisiti abitativi analoghi a quelli di strutture sanitarie simil-ospedaliere, per quanto riguarda metratura, impianti sanitari, accessibilità. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

Tali requisiti sono realizzabili solo in ambiti abitativi ampi, in grado di ospitare un numero consistente di pazienti: almeno venti, con la possibilità di affiancare più unità da venti posti nello stesso comprensorio. Strutture di questo tipo difficilmente trovano collocazione in ambito urbano, sono molto costose da acquisire e da gestire, per cui non possono sostenersi con un numero di pazienti inferiore a quello massimo previsto (non risulta che operino in Piemonte CPA o CPB con un numero di posti inferiore a 20, nonostante la normativa di per sé non lo vieti).

La residenzialità psichiatrica piemontese, nella sua evoluzione concreta, è andata oltre a questo limite, approfittando della flessibilità concessa dalla stessa DCR 357, che non prevedeva standard di personale rigidi per le strutture “leggere”, come i gruppi appartamento e le comunità alloggio.

Hanno potuto nascere strutture di dimensioni assai più ridotte ( da 5 o 6 fino a 10-12 ospiti), con caratteristiche di civile abitazione, non simili a istituzioni sanitarie tradizionali, collocate più facilmente nei centri urbani, ma con dotazioni di personale e organizzazione tali da garantire interventi ad elevata o intermedia intensità riabilitativa, potendo porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, a CPA e CPB.

E’ stato così dimostrato che le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di “terapeuticità” delle strutture leggere, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali; il secondo è il numero più ridotto di utenti che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo.

Le strutture leggere organizzate con questa logica non hanno nulla a che fare con l”accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale”: sono vere strutture riabilitative.

Non è dunque accettabile alcun automatismo, come quello che proponeva sulla carta (per poi contraddirlo nei fatti), la DCR 357; la leggerezza strutturale non significa, in automatico, leggerezza funzionale. 

L’esclusione, ex lege, dai LEA dovrebbe riguardare solo quelle strutture, pur esistenti, che hanno davvero una connotazione assistenziale a bassa soglia, e non tutte le strutture finora classificate come gruppi appartamento o comunità alloggio.

Mantenere all’interno delle prestazioni essenziali le strutture leggere a connotazione terapeutico riabilitativa, naturalmente, non impedirebbe di prevedere modalità personalizzate di contribuzione economica da parte degli utenti, come già ora avviene in molto situazioni, all’interno dei progetti terapeutici individuali.

QUAL E’ L’IMPATTO ECONOMICO DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA?

I progetti di riabilitazione territoriale che la delibera della vecchia Giunta regionale ha escluso dai LEA, quando organizzati in maniera efficiente, hanno l’effetto di ridurre la spesa complessiva dei Dipartimenti di salute mentale. In particolare, la residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002 http://bjp.rcpsych.org/content/181/3/220.long) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti.

Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23712514), su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione.

Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Negli ultimi anni, molti servizi, sviluppando in maniera strutturata reti di residenzialità leggera e progetti integrati di domiciliarità, sono riusciti a ridurre la spesa residenziale complessiva; sia agendo in senso preventivo, per evitare nuovi inserimenti, sia rendendo possibili dimissioni da strutture a costo elevato.

Sarebbe auspicabile che questi dati venissero resi noti il prima possibile agli Amministratori regionali e a tutti gli utenti e operatori della salute mentale.

Le prestazioni a rischio di ridimensionamento con l’esclusione dai LEA  (borse lavoro, progetti di domiciliarità, residenzialità leggera) sono  strumenti di comprovata efficacia dal punto di vista clinico ed economico. Proseguire nella direzione della Delibera del 21 maggio 2014, comporterebbe un grave peggioramento della qualità dei servizi riabilitativi psichiatrici nella Regione Piemonte e  avrebbe conseguenze economiche opposte a quelle dichiarate, perché comporterebbe un netto aumento della spesa, a vantaggio di progetti residenziali ad elevata protezione e costo.

Riabilitazione e Recovery

Negli ultimi anni, soprattutto gli autori anglosassoni hanno dato molta importanza al concetto di recovery inteso non nel senso letterale di guarigione, ma in un senso più complesso, che non ha una traduzione italiana pienamente soddisfacente, per cui si preferisce mantenere il termine originale inglese. Il termine recovery  nasce soprattutto dal contributo delle associazioni di pazienti o ex pazienti: rappresenta la versione dal punto di vista dell’utente degli obiettivi terapeutici e riabilitativi.

Termini come remissione o guarigione sociale si riferiscono alla scomparsa dei sintomi o al raggiungimento di precisi obiettivi riabilitativi (vivere autonomamente, lavorare, ecc.) Per recovery s’intende invece il versante soggettivo; ci si riferisce ai vissuti personali del paziente, ai suoi pensieri e sentimenti, non solo rispetto alla malattia ma alla sua attuale situazione di vita complessiva. S’intende il recupero della sensazione soggettiva di vivere una vita piena, soddisfacente, dotata di senso, con la possibilità di formulare obiettivi personali e autentici e di compiere liberamente delle scelte. (Warner, 2009)

Le definizioni ufficiali più recenti di riabilitazione psichiatrica, dando importanza alla soddisfazione personale del paziente, si sono avvicinate a fare propri i concetti di recovery.  Ad esempio la Uspra precisa che il proprio mandato istituzionale prevede di «Promuovere la recovery, la piena integrazione sociale, e una migliore qualità di vita per tutte le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo mentale, tale da compromettere seriamente la possibilità di condurre una vita piena di significato».

La Riabilitazione in Salute Mentale

La riabilitazione ha come oggetto i pazienti che non guariscono, o guariscono in modo parziale, pur avendo ricevuto le migliori terapie disponibili. Si occupa cioè delle malattie che gli strumenti terapeutici standard non riescono a eliminare del tutto, e dell’impatto a medio-lungo termine che esse determinano sulla vita dei pazienti.

In salute mentale, l’ambito riabilitativo riguarda una dimensione molto ampia e complessa: quella del funzionamento interpersonale e sociale, poiché i disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone. Da tale compromissione derivano le difficoltà a conseguire e mantenere un ruolo sociale, con forti rischi di emarginazione. (Siani, 1991)

In una significativa percentuale dei pazienti affetti da disturbi psichici maggiori (psicosi, disturbi maggiori dell’umore e gravi disturbi di personalità), la mancanza di un’adeguata strategia riabilitativa comporta, con sostanziale certezza, la perdita irreversibile di una normale integrazione sociale e quindi dei diritti di cittadinanza. (Roberts et al., 2006)

Questa categoria di pazienti, che costituisce lo 0,2-0,4% della popolazione generale dei Paesi sviluppati secondo gli studi epidemiologici, ovvero fra 200 e 400 soggetti ogni centomila abitanti (Ruggeri, 2000) un tempo era destinata all’internamento a vita in ospedale psichiatrico, che sanciva l’impossibilità di mantenere un ruolo all’interno del mondo normale, a fianco dei propri familiari, amici, concittadini.

Se la riabilitazione psichiatrica non è disponibile o è praticata in maniera insufficiente, lo stesso destino d’isolamento, o di espulsione verso un mondo a parte, è inevitabile ancora oggi, che i manicomi sono stati chiusi e terapie farmacologiche efficaci sono accessibili in modo quasi generalizzato. Infatti, nei disturbi più gravi, le terapie psichiatriche in senso stretto, e in particolare quelle psicofarmacologiche, pur agendo sui sintomi più evidenti (deliri, allucinazioni, comportamenti stravaganti, idee di suicidio), non eliminano il deficit relazionale, che spesso resta significativo e duraturo. Da qui discende il ruolo centrale delle tecniche riabilitative come complemento indispensabile alle terapie. (Craig, 2006)

La compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui ottenere un migliore funzionamento inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario. Essendo molto ampio il concetto di funzionamento sociale, non stupisce che altrettanto ampi siano i confini di applicazione della riabilitazione psichiatrica, venendo a comprendere ambiti insoliti per altre discipline sanitarie, come il lavoro, le amicizie, il tempo libero, l’espressione artistica. Naturalmente, meritano la definizione di attività riabilitative solo quelle che si basano su una consolidata prassi professionale e, soprattutto, su dimostrazioni di efficacia nella letteratura scientifica internazionale, che è molto estesa.

Secondo uno degli Autori che più hanno contribuito allo sviluppo attuale del concetto, William Anthony dell’Università di Boston, la riabilitazione in psichiatria: «Ha lo scopo di consentire alle persone affette da malattie mentali gravi e persistenti di sviluppare le abilità emotive, sociali e intellettuali necessarie per vivere, studiare e lavorare nell’ambiente sociale di scelta, con il minimo livello possibile di sostegno professionale».  (Anthony, 2002, 2009)

Questa visione è stata ripresa e adottata con alcune modifiche dalla società professionale nordamericana che si occupa di riabilitazione, la United States Psychiatric Rehabilitation Association, che nel 2007 ha coniato la seguente definizione: «La riabilitazione psichiatrica è finalizzata ad aiutare gli utenti a sviluppare le abilità e ad accedere alle risorse di cui hanno bisogno per migliorare la loro possibilità di avere successo e di essere soddisfatti negli ambienti di vita, lavoro, studio e nei contesti sociali di loro scelta». (USPRA, 2007)

Con solo alcune sfumate differenze, i punti fondamentali qui sottolineati sono: integrazione sociale, anziché permanenza dei pazienti “fuori dal mondo” in un mondo a parte; scelta dei luoghi di vita e di cura; soddisfazione personale.

Sono tre principi che contraddicono in maniera radicale il modello dell’istituzionalizzazione dei malati di mente (Goffman, 1961; Basaglia, 1968)), che ha dominato in tutto il mondo fino agli anni 60 e 70 del 900, e che è tuttora utilizzato, spesso in maniera non dichiarata o addirittura non consapevole, anche nei paesi avanzati, compresa l’Italia, e che si basa sull’esatto contrario: isolamento sociale, assenza di possibilità di scelta e di soddisfazione dei bisogni individuali.

Una piena inclusione sociale della persona, per essere tale, deve riguardare diversi ambiti di vita: consumo (capacità di acquistare beni e servizi); produzione (partecipazione ad attività economiche e socialmente riconosciute); partecipazione politica (coinvolgimento in processi decisionali locali o nazionali); interazione sociale (integrazione con la famiglia, gli amici, il territorio).  (CASE; London School of Economics, 2002)

La principale specificità della riabilitazione in salute mentale, è che gli obiettivi non sono stabiliti a priori, in base a protocolli generali e predefiniti, bensì devono essere concordati e negoziati caso per caso, e non solo fra paziente e terapeuta. Spesso i protagonisti della negoziazione sono più di due, perché giocano un ruolo importante la famiglia, i vicini di casa, i datori di lavoro, le forze dell’ordine. (Antony, Farkas, 2009)

Naturalmente è impossibile parlare in astratto del funzionamento socio-relazionale e dell’integrazione sociale di un paziente, senza considerare gli ostacoli o viceversa i fattori facilitanti che provengono dal contesto sociale, quale che sia il problema di salute. Il ruolo cruciale dei fattori contestuali per ogni condizione sanitaria, in correlazione stretta con le dirette conseguenze della malattia, è stato enfatizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la pubblicazione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), nel 2001.

 

Bibliografia

  • Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Warner, Richard. Recovery from schizophrenia and the recovery model. Current Opinion in Psychiatry, luglio 2009
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of rehabilitation psychiatry. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • Craig, Tom, in Roberts, Glenn et al. Enabling recovery, citato
  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  • Anthony, W. et al. . “Psychiatric Rehabilitation.” Boston, MA: Center for Psychiatric Rehabilitation, Sargent College of Health and Rehabilitation Sciences. Boston, MA: Boston University. 2002
  • Anthony, William. Psychiatric rehabilitation: a key to prevention. Psychiatric Services, gen 2009
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, uspra.org
  • The Centre for the Analysis of Social Exclusion at the London School of Economics, 2002
  • Basaglia, Franco. L’istituzione negata. Einaudi, 1968
  • Goffman, Erving. Asylums (1961) trad it 1968, Einaudi
  • Warner, Richard e Leff, Julian; Social inclusion of people with mental illness, Cambridge University Press, 2006
  • Antony, William e Farkas Marianne; A primer on psychiatric rehabilitation process. 2009 http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf
  • WHO http://www.who.int/classifications/icf/en/

 

Riabilitazione Lavorativa

Numerosi studi internazionali dimostrano che solo una ristretta minoranza (tra il 10 e il 20% secondo studi recenti: Cook et al. 2005) dei pazienti affetti da malattie mentali gravi riesce a mantenere un’attività lavorativa competitiva e quindi un’autonomia economica (ingrediente fondamentale del diritto di cittadinanza).

D’altra parte è dimostrato che tra i fattori predittivi principali della possibilità di trovare e mantenere un posto di lavoro per i pazienti gravi c’è l’aver partecipato a programmi riabilitativi specifici (Tsang et al. 2010)

La riabilitazione lavorativa consiste sia nel supporto alla ricerca di impieghi sul mercato competitivo, con o senza il tramite delle liste speciali per il collocamento delle persone con riconoscimento di invalidità lavorativa; sia l’attivazione di tirocini a valenza terapeutico riabilitativa.

Questi ultimi, sono oggetto di un tentativo di ridimensionamento a livello regionale piemontese, attraverso l’esclusione dalle prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza (lea). Eppure l’ancora vigente legge regionale 357 ne sancisce in maniera inequivoca il carattere terapeutico-riabilitativo e, quindi, la natura esclusivamente sanitaria.

L’esperienza concreta di anni, e il conforto della letteratura scientifica dimostrano che, sia gli inserimenti lavorativi (Individual Supported Placement secondo il più accreditato modello internazionale: Becker et al, 2011) sia i tirocini a valenza riabilitativa (borse lavoro, nel sistema piemontese) purché adottati all’interno di una strategia di intervento complessiva, sono parte integrante di quei “percorsi di presa in carico e cura esigibili” di cui parla senza ambiguità il Piano di Azioni Nazionale Salute Mentale.

Bibliografia

  • Cook J.A. et al. Results of a multisite randomized trial of supported employment interventions for individuals with severe mental illness. Archives of General Psychiatry, 2005 62(5),
  • Tsang HW et al. Review on vocational predictors: a systematic review of predictors of vocational outcomes among individuals with schizophrenia: an update since 1998. Aust N Z J Psychiatry. 2010 Jun; 44(6)
  • Becker, Deborah et al. “Benchmark Outcomes in Supported Employment”. American Journal of Psychiatric Rehabilitation 14 (3): 2011

Riabilitazione Territoriale

Obiettivo essenziale della riabilitazione psichiatrica e l’apprendimento di abilità sociali. Una tecnica che si pone in tale prospettiva, ed è oggetto di studi numerosi a livello internazionale, è il cosiddetto Social skills training.

Nasce dalle teorie di apprendimento sociale note come Social learning, (Bandura 1977) corrente del comportamentismo che è andata oltre il semplice concetto di rinforzo per approfondire un’altra modalità di apprendimento, quella dell’imparare osservando gli altri. Si tratta di tecniche comportamentali di apprendimento, in genere somministrate in moduli semistrutturati, in setting di gruppo.

Per social skills (abilità sociali) s’intendono le componenti comportamentali (modificabili dall’apprendimento) della competenza sociale, cioè l’abilità di raggiungere obiettivi personali nell’interazione con gli altri, e nei diversi contesti di vita.

Nella proposta di Autori influenti come Robert Paul Liberman, (Liberman et. al, 1989) i moduli semistrutturati devono riguardare gli ambiti di vita fondamentali per il paziente, dalla gestione dei farmaci e dei sintomi, alle relazioni interpersonali, al lavoro, alle amicizie, alla famiglia, ecc.

Si deve dunque dare per acquisito sperimentalmente il concetto che, nei disturbi psichici gravi, le abilità sociali carenti possano essere apprese, attraverso programmi specifici, che sfruttano soprattutto i meccanismi di gruppo.

Questa pratica è molto presente nelle esperienze italiane e piemontesi, anche se viene per lo più attuata con modalità diverse da quelle contenute nei rigidi protocolli manualizzati delle ricerche internazionali.

L’apprendimento sociale attraverso il gruppo è a fondamento, ad esempio, degli interventi in Centro diurno, sia quelli impostati con singole attività riabilitative di gruppo, centrate su attività quotidiane o ludiche, ma che richiedano una più o meno impegnativa performance relazionale (quelle che fanno “rizzare i capelli in testa” agli amministratori, come il gruppo cucina, gruppo giornali, gruppo calcio…); sia quelli in cui è la condivisione della quotidianità, il clima sociale e l’atmosfera del gruppo, più che singole attività strutturate, a fornire da stimolo all’apprendimento sociale: le cosiddette comunità diurne.

Un altro modello riabilitativo territoriale più vicino alle esperienze italiane, e rispondente alle esigenza di forte integrazione degli interventi  espressa dal Piano di Azioni Nazionale sulla salute mentale del 2013,  è conosciuto nella letteratura internazionale come Training in Community Living (Stein, Test, 1980).

Secondo tale approccio, l’apprendimento di abilità sociali deve avvenire nei contesti di vita reale e non  in contesti artificiali; devono essere gli operatori a raggiungere l’utente nei suoi luoghi di vita abituali, sul territorio, e non viceversa.

Da questa filosofia nasce un modello d’intervento validato sperimentalmente: l’Assertive Community Treatment (ACT) Il modello ACT si fonda su criteri organizzativi molto specifici e precisi (Sahmsa.gov) : équipe territoriale multidisciplinare  (medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali); rigidi criteri di ammissione alla presa in carico; utenti molto gravi con elevati tassi di recidiva e ospedalizzazione; numero limitato di pazienti in carico (dieci-quindici utenti per ogni operatore).

L’approccio si definisce assertivo in quanto implica una propensione attiva nei confronti degli utenti o delle famiglie che non chiedono o che sabotano il trattamento. L’obiettivo è: zero drop out. D’altra parte assertività non significa coercizione: viene perseguito il coinvolgimento costante, e il più ampio possibile, dell’utente nella definizione degli obiettivi.

Dal punto di vista organizzativo l’approccio è di squadra: più di un componente dell’équipe ha contatti regolari con ogni singolo utente; si tengono riunioni d’équipe quotidiane; i casi vengono condivisi, la responsabilità clinica appartiene non al singolo operatore ma all’équipe; il responsabile dell’équipe è coinvolto direttamente nel lavoro clinico. Esiste un progetto clinico definito (e scritto) per ogni utente.

Gli interventi devono essere flessibili e ad ampio raggio: dalla gestione territoriale della crisi, alla gestione clinica ordinaria, alla riabilitazione, all’inclusione sociale. Devono essere possibili interventi in continuità 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno; devono essere previsti interventi attivi e costanti sul  contesto: familiari o reti  di supporto. Si deve mirare al coinvolgimento diretto di volontari e/o di utenti e familiari esperti.

Come già detto, è una modalità organizzativa che ricorda molto da vicino quella delineata dal Piano d’Azioni nazionale per la salute mentale per la presa in carico dei pazienti gravi e complessi. Corrisponde in maniera abbastanza precisa ai progetti di Domiciliarità e all’organizzazione territoriale “forte”, che alcuni Csm italiani e piemontesi si sforzano ancora di garantire, nonostante il sottigliarsi drammatico delle risorse.

A livello internazionale il modello ACT è stato studiato in numerosi studi controllati e ha dato i seguenti risultati: riduzione significativa del tasso di ospedalizzazione; miglioramento dell’adesione ai trattamenti e della soddisfazione dell’utente; miglioramento di alcuni esiti di funzionamento sociale (ma non tutti). Per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi, l’Act non è significativamente superiore ai trattamenti standard, il che non è sorprendente, visto il carattere riabilitativo e non strettamente terapeutico, del modello (Roberts et al. 2006).

Bibliografia

  • Bandura, A. . Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change. Psychological Review, 1977
  • Liberman Robert Paul et al, Social Skills Training for Psychiatric Patients, New York, Pergamon Press, 1989,

Normative e Riabilitazione

I principi della riabilitazione proposti dalla letteratura scientifica internazionale, trovano una sostanziale corrispondenza nei fondamenti normativi dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese, così come essa è definita (almeno sulla carta) dal Progetto Obiettivo Nazionale nella sua ultima versione (1998-2000) e dal Piano di Azioni Nazionale per la Salute mentale, approvato dalla Conferenza Unificata Stato Regioni nel 2013 e subito recepito dalla Regione Piemonte.

Il Progetto Obiettivo definisce in maniera inequivoca che la priorità va: “ad interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali gravi, da cui possono derivare disabilità tali da compromettere l’autonomia e l’esercizio dei diritti di cittadinanza con alto rischio di cronicizzazione e di emarginazione sociale».

Il Piano di Azioni del 2013 stabilisce quattro aree di bisogni prioritari, di cui la prima (area esordi e intervento precoce) e la terza (area disturbi gravi, persistenti e complessi) riguardano in maniera diretta i pazienti di cui si occupa la letteratura sulla riabilitazione psichiatrica e sulla recovery.

Ma cosa s’intende per disturbi gravi, persistenti e complessi? Nella letteratura internazionale, questo concetto, descritto come malattia mentale grave, è definito in maniere diverse; una delle definizioni più semplici pragmatiche si deve ad un’Autrice italiana, Mirella Ruggeri, dell’Università di Verona, (Ruggeri et al., 2000) la quale propone tre criteri:

  • uno clinico (diagnosi di disturbo psichico maggiore, ovvero psicosi, disturbo maggiore dell’umore o disturbo grave di personalità)
  • uno di funzionamento individuale (funzionamento relazionale e sociale gravemente compromesso, come misurato da una scala validata, il VGF, che deve avere un punteggio inferiore a 50);
  • uno di processo istituzionale (necessità di uso continuativo dei servizi psichiatrici per più di due anni).

Se almeno due di questi criteri vengono soddisfatti, si è in presenza di un disturbo grave e invalidante. La prevalenza della malattia mentale grave, così definita, è molto bassa: circa lo 0,2 % l’anno (200 pazienti ogni centomila abitanti), ma riguarda la sottopopolazione di utenti più sofferente e bisognosa, appunto quella cui devono essere destinate la maggior parte delle risorse terapeutiche riabilitative.

Naturalmente la realizzazione pratica, nella realtà concreta, dei principi sanciti dalla letteratura e dalle normative, dipende da come i servizi psichiatrici sono organizzati e dalla cultura (dalle idee e dai valori di fondo) degli operatori che vi lavorano.

Anche gli aspetti organizzativi necessari sono sintetizzati in definizioni ufficiali, come quella del Royal College of Psychiatrists britannico: ” L’approccio riabilitativo ideale comprende un insieme di servizi ad ampio raggio, che garantiscono continuità, coordinamento e orientamento al punto di vista dell’utente”. (Roberts et al., 2006)

Secondo l’Uspra : “I servizi riabilitativi sono collaborativi, diretti alla persona e individualizzati. Tali servizi sono una componente essenziale della rete dei servizi sanitari e sociali e dovrebbero essere evidence based”. (USPRA, 2007)

Anche il Piano di Azioni Nazionale del 2013 prescrive un’impostazione organizzativa precisa: “La presa in carico si rivolge ad un soggetto che è riconosciuto parte attiva di una relazione di cura e si fonda su un rapporto di alleanza e di fiducia con l’utente, i suoi familiari e le persone del suo ambiente di vita. Il servizio psichiatrico che si assume la titolarità della presa in carico di un utente deve comunque offrire un supporto complessivo in tutto il percorso del paziente (interventi territoriali, ospedalieri, di emergenza/urgenza, residenziali e semiresidenziali) e garantire la risposta in tutte le fasi del trattamento”.

Non c’è dubbio che per garantire gli ambiziosi, risultati della riabilitazione psichiatrica è necessario un insieme organizzato di attività integrate e non singoli interventi fra loro non coordinati. A questo proposito il Piano d’Azioni arriva a specificare che: “ il concetto di LEA in salute mentale viene inteso come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”.

In questo senso è escluso che un Dipartimento di salute mentale che si limiti (come purtroppo spesso accade) ad erogare frammentarie prestazioni mediche o psicologiche, secondo un’ottica da ambulatorio specialistico, o interventi ospedalieri, possa ritenere di adempiere al proprio mandato istituzionale.

Curare adeguatamente i pazienti più gravi e prioritari significa applicare alcune strategie di fondo della riabilitazione psichiatrica (Siani et al., 1991): multidisciplinarita’ per l’ampiezza degli ambiti di intervento, che richiedono  varie professionalità: medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali; stretta integrazione e continuita’ di ogni intervento, medico, psicologico o socio-assistenziale, che deve essere coordinato con gli altri in una strategia complessiva a medio-lungo termine; territorialita’ perché gli operatori devono conoscere e agire ogni volta che serve nel contesto di vita del paziente, anziché incontrarlo solo in ospedale o in ambulatorio.

Il fatto che gli strumenti riabilitativi utilizzati debbano essere evidence based, ovvero studiati con metodologia scientifica che ne dimostri l’efficacia, è un altro principio ineludibile.

Non è esagerato dire che, se non applicano i principi della riabilitazione psichiatrica, i servizi di salute mentale, semplicemente, non fanno  il loro mestiere, cioè non sono in grado di realizzare il mandato istituzionale previsto dalle leggi,  per cui vengono finanziati dal contribuente.

 

Bibliografia

  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  •  Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of psychiatric rehabilitation. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, www.uspra.org

NATIVI ISTITUZIONALIZZATI. Quando la Prassi soffoca il Pensiero

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Questo breve scritto inizia con una storia raccontatami da mio padre, generale dei paracadutisti, ed alla sua memoria è dedicato.

Quando era ancora un giovane tenente, di fresca nomina, aveva ricevuto un incarico gravoso ed importante, occuparsi delle procedure di sicurezza di una caserma operativa.

Di fatto doveva verificare che le sentinelle e le ronde fossero sempre presenti nei luoghi strategici onde evitare possibili incursioni e violazioni del perimetro di sicurezza.

Come tutti i suoi predecessori si mise a studiare per bene il piano di sicurezza già presente e che in genere nessuno modifica mai. Tutto gli sembrava corretto tranne due cose che non comprendeva: in estate era prevista una presenza extra di una sentinella armata in un giardino della caserma, luogo di nessuna utilità strategica, ed ancora,  la ronda armata nel giro di ispezione doveva passare una volta al giorno nei pressi di una fontana circolare, ormai in disuso e riempita di cemento.

Pur non rischiando, e confermando provvisoriamente il piano di sicurezza, per curiosità volle cercare di capire queste due apparenti stranezze. Stava di fatto ripercorrendo delle storie di storie, come nel nostro lavoro non credete? Riuscì a svelare l’arcano solo molti mesi dopo, invitando un vecchio maresciallo in pensione che comunque amava partecipare alle feste insieme ai suoi ex commilitoni.

Ecco gli arcani: le susine del colonnello e le carpe del congedo.

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Partiamo dalle susine. Molti anni prima nel giardino di cui sopra erano stati piantati degli alberi di susine, che in estate producevano delle piccole e dolci susine e che venivano regolarmente depredate dai soldati, il colonnello geloso dei suoi frutti aveva risolto piazzando una sentinella a garanzia del raccolto.

Nella fontana invece anni prima vivevano delle carpe, e fra i militari era usanza catturarle a mani nude poco prima del congedo, questo aveva causato problemi disciplinari  per cui la ronda aveva iniziato a passare di lì, e poi, onde risolvere definitivamente il problema, la fontana era stata svuotata e riempita di cemento.

Nonostante tutto questo fosse accaduto molti anni prima, nel piano di sicurezza permanevano queste disposizioni, che nessuno si era mai preso la briga di modificare; se qualcuno l’aveva scritto “deve” avere un senso, meglio non rischiare no?

Vi lascio intuire le modifiche introdotte dal tenentino, curioso e dal mio punto di vista collega virtuoso ante litteram.

Pochi mesi fa stavamo discutendo in una equipe di colleghi che si occupa di un articolato sistema di alloggi con diversi gradi di protezione, tutti situati nel centro della città in cui operiamo.

Ci sono sette monolocali e tre gruppi appartamento veri e propri, con coperture orarie diverse, tutti i locali insistono sulla grande piazza della cittadina di cui sopra, e sono coperti dalla stessa equipe, che si divide fra luoghi e forme pensiero, obbligata a moleste elasticità del pensare.

Il tema erano i regali natalizi per i pazienti.

L’equipe stava decidendo il budget con cui si sarebbero fatti i regali per tutti.

Mi sono permesso, in virtù del mio ruolo, di questionare la vicenda: perché fare regali a tutti? Perché deve pagare la struttura e non invece gli operatori? Ed ancora perché mai i pazienti non devono contraccambiare? Ovviamente, ma forse non tanto, si è scatenato un vespaio.

Alcune frasi: “nella comunità dove lavoravo si faceva così”, “non mi sembra giusto mettere soldi miei”, “i pazienti non hanno denaro, non possiamo chiedergli niente” e via dicendo. Premetto che sono fiero dei miei colleghi, sono appassionati, determinati, giovani ed hanno voglia di imparare.

Quanto vado ad argomentare non è certo un giudizio sul loro operato. Piuttosto voglio pormi domande sulle ovvietà sulle consuetudini, sulle prassi indiscusse.

Dante ci ricorda che il velo dell’ovvietà è così sottile che lo notiamo solo una volta che lo abbiamo lacerato. Presidiare l’ovvio è il nostro mestiere,  abitare le abitudini con occhio attento un nostro dovere. Tornando al natale, qual è la cosa giusta da fare?

Come i miei colleghi potevano districarsi in pensieri faticosi allorché pressati dalla fatica della quotidianità al confronto con pazienti psichiatrici gravi?

Una risposta univoca prescrittiva non credo esista se non caso per caso, ma una bussola per il pensare va usata, nonostante la fatica che produce. Perché pensare ed usar metafore è per gli psicologi cosa onerosa e ponderosa.

Di fronte a quante susine del comandante ci troviamo quotidianamente? Partendo dai quarantacinque minuti delle sedute individuali in poi per capirci.

Lavorare con i pazienti psichiatrici è faticoso ma se non percorriamo storie, o per dirla con Bruno Vezzani ri-veliamo storie, aggiungendo cioè veli di significato e non togliendoli (svelare) siamo sconfitti per sempre! Saremo sempre più costretti a fare i guardiani della cronicità, guardando a pazienti seriali e sentendoci impotenti ed incapaci di “curare”.

Generazioni di nativi istituzionalizzati crescono, invecchiano ed accrescono le fila del pensiero manicomiale che si sta lentamente riaffermando, talvolta celato in norme e leggi a stampo sanitario che accreditano i metri del gabinetto e sperdono i pazienti in un labirinto senza fine.

Che possiamo fare noi psicologi? Come possiamo introdurre discontinuità collegate ai nostri saperi?

Non cercando gloria e nobel per la psicologia, vorrei provare a testimoniare la nostra fatica quotidiana, soprattutto per i giovani colleghi. Li vedo motivati ma sofferenti. Ancorati a vetusti concetti di setting che li auto-squalificano nel loro operare quotidiano con i pazienti psichiatrici gravi. Beh per forza, direte voi, quello non è lavoro da psicologi, quella non è certo psicoterapia.

Sento queste frasi così tante volte che ormai non mi irrito più.

Esistendo decine di definizioni di psicoterapia, una per ogni collega che se ne è occupato, non voglio certo aggiungerne ancora, per cui mi limiterei a citare un vecchio allenatore di calcio Vujadin Boškov che diceva “rigore è quando arbitro dà”. Io direi psicoterapia è dove la mente del paziente è!

Tornando a natale, ai regali ed alle susine del comandante, vi racconto come è andata a finire, tenendo conto che si tratta solo di una soluzione provvisoria.

L’equipe maledicendomi apertamente, ha portato la discussione nelle riunioni di condominio e di piazza che facciamo con i pazienti, gruppi allargati co-condotti da uno psichiatra ed uno psicoterapeuta. E’ venuto fuori di tutto. Ricordi, stupore, dubbi, idee balzane, proposte variegate sia dei pazienti che degli operatori. Un gran casino insomma.

Uno dei pazienti ha commentato “ma non si fa così in una comunità che si rispetti! [..] si fanno i regali e basta” questo ha riaperto la discussione sul fatto che quelli sono gruppi appartamento e che i progetti si creano insieme.

La soluzione pratica è stata una via di mezzo ma non era così importante in fondo.

Mi gratifica più lo sforzo doloroso per non smettere di pensare, per ristudiare gli ordini di servizio per controllare fontane cementate, per aprire il pensiero e non chiuderlo.

Intendiamoci questo è molto più faticoso, ma non ci sono alternative. Altrimenti la via del manicomio, mai chiusa veramente nel pensiero, si riaprirà sotto forme legislative, magari esaltate e descritte come fatte nell’interesse vero dei pazienti.

Esistono tante susine del comandante e fontane del congedo, credo vadano ricercate anche con leggerezza e curiosità. Mio padre modificando gli ordini di servizio, dopo faticose e lunghe ricerche me lo raccontava col sorriso di chi ne ha viste tante, e notavo una velata soddisfazione in un uomo che per mestiere era a contatto con la morte quasi quotidianamente.

Dei paracadutisti dicevano uomini coraggiosi, un po’ pazzi ed un po’ poeti.

Ma questa definizione non si attaglia anche ai giovani psicologi?

 

Diego Menchi

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