MODELLO LOMBARDO O SI CAMBIA VERSO? 2.0

 

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata anche dalla Giunta Chiamparino , è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi, dopo l’approvazione della 357, è andato in una direzione molto diversa: la DCR non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008, sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture almeno a intermedia intensità riabilitativa (SRP2) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

Perchè è Nostro Dovere

Perchè è Nostro Dovere

Psicologi e Psicoterapeuti fra Residenzialità Illusioni e Società Civile

 

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Nei primi giorni del Giugno 2015 la nuova Giunta che governa la Regione Piemonte ha approvato una delibera sul riordino della assistenza ai malati psichici, centrata sul tema della Residenzialità.

Questo atto “dovrebbe” portare ordine nelle strutture che accolgono i pazienti psichiatrici, le comunità protette (ex CPA e CPB) le comunità alloggio ed i Gruppi Appartamento.

Il testo della delibera è circolato in modo informale, ad oggi (fine Giugno) non è ancora stato pubblicato nell’apposito bollettino.

Le reazioni sono state unanimi, dal Servizio Pubblico alle Associazioni di parenti e pazienti, dal privato sociale al privato profit,  dai pazienti agli operatori: tutti e sottolineo tutti si sono preoccupati e sono rimasti allibiti per usare un eufemismo.

La Giunta, senza seguire l’iter democratico previsto dalla legge (passaggio in Commissione Sanità e voto in Consiglio Regionale) e senza coinvolgere le parti sociali, ha approvato una delibera che di fatto rischia di cancellare gli ultimi venti anni di sperimentazioni Piemontesi e scaraventare la psichiatria di cinquanta anni indietro. I Gruppi Appartamento e persino alcune Comunità per come le conosciamo cesserebbero di fatto di esistere.

Le spiegazioni fornite sono pretestuose e consistono in interpretazioni opinabili ed univoche di normative nazionali che al fondo a ben vedere contengono un unico razionale (a meno di cercare altre verità peggiori): l’imperativo è uno solo e si diffonde dal Cuneese al Canavese “risparmiare e risparmieremo!!”

Nel pieno attuarsi della suddetta DGR la categoria professionale degli psicologi, ma si potrebbero aggiungere anche gli educatori, verrebbe profondamente colpita.

Ma perchè è nostro dovere come comunità professionale occuparci della vicenda? “Solo” per questione di soldi (lavoro) o c’è anche dell’altro?

Proveremo ad ipotizzare alcuni scenari e possibili risposte partendo da alcuni punti di repere oramai irrinunciabili.

LA QUESTIONE LAVORO

Si può senza dubbio affermare che negli ultimi vent’anni lo psicologo, al di là del suo inquadramento amministrativo, ha profusamente abitato la psichiatria ed in particolare la residenzialità. Una stima approssimativa indica che oggi circa duemila colleghi lavorano in strutture residenziali, siano esse comunità o gruppi appartamento.

Migliaia di giovani colleghi hanno imparato, sofferto e profuso molte energie a contatto con la follia entro contesti residenziali con regime di protezione variabile.

“Facendo l’educatore” per poi diventare un grande analista o psicoterapeuta e/o supervisore, ci siamo ingaggiati, talvolta con vergogna (“devo pagare la scuola”), in un campo che abbiamo in realtà contribuito a ridefinire in modo significativo.

Spesso sfruttati, noi neo-precari, abbiamo, insieme agli educatori (quasi sempre trattati meglio dal punto di vista economico), di fatto costituito le fondamenta della cura\riabilitazione Piemontese.

Del senso che questo può aver avuto, diremo poi, qui ci limitiamo ad evidenziare un fenomeno strano, surreale e quasi innaturale.

Se in Piemonte un azienda con cento operai chiude (ed è un dramma) e cento famiglie hanno problemi a tirare avanti, i Sindaci scendono in piazza con tanto di fascia tricolore. Ben venga che la politica sia presente nel suo alveo naturale, la società, ma se duemila psicologi restano a casa?

Beh che volete? Lo psicologo deve fare altro, quella roba lì non è da psicologi. E via dicendo con le più svariate metafore e paragoni. Ne prendo uno, il più sentito, quello che alcuni colleghi stessi condividono, quello più fuorviante e che se esaminato con attenzione ci porta nella seconda questione.

“I medici devono fare i medici, il resto lo devono fare gli infermieri!” Sotteso il pensiero che gli psicologi corrispondano ai medici e gli educatori o altre figure – scegliete voi fra le molte possibili – agli infermieri.

Mai metafora fu più fuorviante, oltre che essere radicalmente inutile  svilisce alcune professionalità riproponendo fra le righe un concetto di lotta di classe.

Gli psicologi, laureati e specializzati, sono più ricchi e tutelati, faranno i soldi e devono lasciare ai “più poveri” e “meno competenti” educatori quel tipo di impiego.

Vedremmo guardando bene che nella realtà di oggi i ruoli sono più che rovesciati.

Comunque arriviamo al punto successivo affrontando le ragioni di senso ed opportunità che delibere a parte, giustifichino la presenza nel quotidiano degli psicologi nell’ambito di cui ci stiamo occupando.

LA QUESTIONE QUALITA’

Che contributo può portare un collega lavorando in un gruppo appartamento? Se fa la spesa, il bucato ed aiuta i pazienti a far da mangiare fa il lavoro di un altro? Vivendo la quotidianità, spesso faticosa, con i pazienti si appropria di un ruolo non suo oppure no?

Detta pane e salame: tira a campare per pagarsi l’affitto, il mutuo, la scuola di specializzazione ed i pannolini della figlia o c’è anche dell’altro?

Questa domanda ha una portata assai ampia e ci interroga direttamente su cosa sia oggi fare lo psicologo, si può rispondervi in due modi: il primo è dire sì e tanti saluti, il secondo è provare ad articolare un ragionamento che non può che confluire nel sociale e nella società, come vedremo in seguito.

Dopo un silenzio assordante l’Ordine degli Psicologi della Regione Piemonte ha finalmente deciso, senza imbarazzi retrò, di occuparsi direttamente della vicenda. Sono stati prodotti documenti, anche discordanti, cui si rimanda per approfondire la questione.

Fra gli altri questo:

http://www.psicopoint.com/la-volpe-e-la-mela-considerazioni-sulla-presenza-degli-psicologi-nei-gruppi-appartamento/

Non volendo farne un sunto preferiamo richiamare qui alcune illusioni prototipiche vissute dai giovani colleghi che ormai hanno quasi quarant’anni.

“Lavorerò in psichiatria finche non riesco a fare altro”, “la psicoterapia è un altra cosa”, ” non vedo l’ora di occuparmi solo di pazienti privati”, “voglio fare il supervisore o il coordinatore”, “faccio il volontario per anni in ASL poi appena c’è un concorso verrò assunto”.

Basterebbe un occhiata ai numeri e due riflessioni sull’acquisizione di competenze per sfatare questi mitemi, tutti originati da bias di sistema di ordine storico ed epistemologico di cui parleremo più avanti.

In Piemonte c’è uno psicologo ogni settecento abitanti, i dati tedeschi paragonabili ci parlano di uno ogni cinquemila. In Piemonte presto saremo in settemila.

La matematica ci dice chiaro che le suddette illusioni sono tali a meno di svendere la professione, cosa che sta capitando (sedute a prezzi stracciati, fatture virtuali, cioè mai emesse e tanto altro); viceversa i competitor sono troppi e tanti. In buona sostanza non si può competere con i terapeuti più conosciuti, che hanno tariffe più alte, a meno di compiere nefandezze come quelle su accennate. Se un giovane terapeuta ha dieci pazienti stabili può dirsi fortunato, questo numero possiamo assumerlo come riferimento di mercato, sotto questa cifra si lavora quasi in perdita, sempre ripetiamo facendo fattura e praticando tariffe sensate, usanze ahimè in declino.

Nel pubblico gli psicologi non vengono più assunti anzi, ancora una volta basta osservare i dati, invito i lettori a procuraseli non citandoli di proposito, per capire come siamo “visti” dal Sociale.

Se in un ospedale dimezzassero i medici o gli infermieri sono certo che dovrebbe chiudere.

Ed ancora come si fa ad acquisire competenze supervisorie, di coordinamento, od anche solo psicoterapiche con i cosìddetti pazienti nevrotici se prima non ci si confronta con patologie severe vedendone in gran numero?

Ciò che ha sorretto questa forma-pensiero illusoria è un insieme di fattori, alcuni culturali, altri di mercato. Vediamone a titolo di esempio solo tre:

  • la sopravvalutazione del mondo interno e del sentire a scapito del pensare e pensarsi immersi in una cultura storicizzata appartenente ad una società. Figli inconsapevoli dei modelli analitici o delle contro-reazioni ad essi (ad esempio la terapia della Gestalt ma vale anche per altri “modelli”) abbiamo continuato a pensare che la psicoterapia avesse alcuni oggetti ed un solo “vero” luogo dove poteva realizzarsi: lo studio, le sedie disposte in un certo modo, il divano ed alcuni pazienti “chimera” molto ricchi che ormai non esistono quasi più. Poveri noi…
  • la conseguente centratura sul dentro che ci ha fatto completamente ignorare il fuori. Il mondo cambiava e noi No. Abbiamo continuato con un certo snobismo intellettuale a sottovalutare i cambiamenti sociali, disinteressandocene e nel peggiore dei casi giudicando spazzatura tutto ciò che stava fuori dalle stanze degli analisti/terapeuti che ci hanno “curato” e cui noi tendevamo a somigliare. Questo in parte spiega la vergogna a dirsi “facente funzione educatore”
  • il cane che si mangia la coda. Lo psicologo che in primis è mercato di se stesso. A dispetto del mondo reale le scuole di specializzazione, cui anelavamo per fare quanto sopra, hanno continuato a sfornare terapeuti, poi fare master, poi a formare i counselor e via dicendo. Siamo stati noi l’oggetto del nostro stesso mercato. Giovani psicologi oggetto-mercato di psicologi meno giovani. Questo in economia porta inevitabilmente ad un default, ed infatti ci siamo arrivati. Le scuole vedono drastici cali dell’affluenza ed a maggior ragione alcune sostengono ufficiosamente “Ahh se non avessimo i counselor dovremmo chiudere”. E chiudete chissene!

Come possiamo “reagire” a questo stato di fatto? Come possiamo ingaggiarci con il sociale sincronizzandoci finalmente con la realtà. Perchè è un nostro preciso dovere farlo?

Veniamo alla questione etica.

LA QUESTIONE ETICA

Ormai etica per noi ha solo un significato: efficacia ed impegno sociale quindi politico nel senso nobile del termine.

A costo di sentirci dare degli eretici, non possiamo pensare ad altro che non sia una continua valutazione del proprio operato. Pensate alle analisi interminabili che facciamo dove spesso giudice giuria e accusato coincidono. Pensate a quanto poco ci siamo spesi per dimostrare l’utilità sociale dei nostri saperi indipendentemente da dove essi vengano applicati.

Pensate allo iato esistente fra clinica ed Università. Se l’Università di medicina scoprisse un nuovo antibiotico, ai medici verrebbe naturale interessarsene. Per noi talvolta la Facoltà di Psicologia è poco più che un parcheggio strapieno.

Solo un ideologia è bastante a se stessa, qualunque forma di pensiero scientifico specie se con un mandato sanitario prevede un ingaggio con una qualsivoglia forma di valutazione.

Ditemi se vi è mai capitato di trovarvi ingaggiati a dimostrare l’utilità del vostro operato al di là della buona fede, delle sensazioni o della relazione con i pazienti privati.

Questo proiettato nel lavoro con le Istituzioni intese a risparmiare e pretendere qualità in base a determinati standard diventa assai complicato e cogente.

Ne consegue che se lavoriamo su temi di ampia portata e che prevedono un forte embricamento con il sociale e con le seguenti riflessioni legislativo-normative diventa impossibile esimerci dal prendere delle posizioni politiche, nel senso più alto del termine.

Quando anni or sono abbiamo deciso di “far politica”, – qualunque azione nel sociale di fatto è anche una azione politica – molti colleghi anche esperti, ci hanno chiaramente detto “non esponetevi troppo”, “continuate a fare solo i clinici”. Ci abbiamo riflettuto molto ma ci siamo veramente sentiti di far clinica specie nei momenti in cui abbiamo cominciato a frequentare i luoghi dei decisori, cercando di impedire o favorire alcuni processi che clinicamente avrebbero avuto conseguenze, funeste o meno.

Che differenza con l’analista nel mito, astinente, lontano dai riflettori, rinchiuso nel suo studio che ne dite?

ED INFINE

In questa ottica ci sembra irrinunciabile provare a fare qualcosa, e cominciare a considerare parte fondante del nostro sapere una vera, autentica, al limite ingenua “partecipazione” alla res politica.

Siamo immersi nel sociale ne veniamo influenzati ed in certa misura lo influenziamo, è bene dismettere la farsa della neutralità.

Anche i nostri “pazienti privati” che ci vedono sui giornali, sembrano averlo capito bene.

Queste valutazioni ovviamente sono provvisorie, in attesa che una qualche forma di ricerca indaghi l’efficacia della psicoterapia condotta da chi ha visibilità pubblica. Questa valutazione ovviamente non sta a noi, citiamo queste riflessioni con mera intenzione euristica.

E’ veramente nostro dovere partecipare e nello specifico impedire lo sfacelo della Salute Mentale che si prepara in Piemonte. E’ un nostro dovere primariamente clinico; con ciò intendiamo anche la capacità di far rete e promuovere pensiero. Creare links, presidiare svincoli, tessere trame nuove, non sono forse questi atti tipici dello psicologo e del terapeuta?

Non possiamo voltare la testa dall’altra parte questa volta. Nessuno farà qualcosa al posto nostro e nel migliore dei casi il nostro posto sarà ancora una volta tristemente vuoto.

Dobbiamo tornare ad esistere nei luoghi dove si formano giudizi e pregiudizi, onde evitare che la lamentela e la vergogna siano i nostri unici strumenti.

Se è plausibile che per chi detiene un mandato di cura effettuare i seguenti passaggi, tagliati con l’accetta per ragioni di spazio:

etica = efficacia = valutazione = ingaggio con i valutatori = azione sociale = politica

come possiamo non scendere in campo?

In tutte le altre professioni sanitarie esistono da sempre circoli simili, nel mondo medico spesso valutazioni tecniche pongono problematiche di ordine sociale. Sta alla società civile ed ai suoi rappresentanti poi prendere le decisioni.

Ma noi come categoria quante volte abbiamo “obbligato” la politica a prendere in considerazione problematiche tecniche che diventano sociali e poi cliniche?

Quante volte è accaduto l’inverso invece? Quanto spesso siamo stati obbligati a rincorrere quelle scelte fatte da altri di cui nemmeno coglievamo il senso?

Questa volta accadrà lo stesso? Ancora una volta ci squalificheremo da soli?

Non possiamo pensare che i nostri pazienti gravi che abitano strutture civili ed inclusive vengano nuovamente rinchiusi in minicomi, tanto meno siamo disposti a tollerare che ci venga risposto che la nostra protesta è solo una questione di lobbying professionale.

“Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo.” diceva  Ernesto Guevara, come possiamo sentirci terapeutici se non avvertiamo quella vampa e quel rossore? Se queste non sono questioni cliniche ed etiche con la C e la E maiuscole di cosa diavolo stiamo parlando?

Ai posteri..

DGR SAITTA considerazioni critiche e proposte di miglioramento

La DGR Saitta inserisce d’autorità tutte le strutture classificate come gruppi appartamento secondo la DCR 357, nella categoria SRP3 secondo il modello Agenas-Gism: ovvero le considera tutte come strutture prive di una funzione terapeutica-riabilitativa, che possono garantire solo interventi di taglio assistenziale a bassa intensità, per pazienti con patologie lievi, croniche e stabilizzate.

Si tratta di un grave errore concettuale e di un’affermazione che non tiene conto della realtà dei fatti: forse un equivoco, dovuto all’uso comune del termine gruppo appartamento per indicare strutture molto diverse fra di loro.

Confidiamo che il previsto censimento dei pazienti inseriti e dei loro bisogni chiarirà finalmente la questione. La tanto sottolineata differenza di costi e di diffusione dei gruppi appartamento in diversi territori piemontesi non è detto che rifletta solo caos e cattiva gestione; è anche frutto del fatto che, in assenza di una programmazione centralizzata da parte della Regione, i Dipartimenti di salute mentale si sono organizzati in maniera diversa. Un po’ per differenze nell’impostazione culturale, un po’ per ragioni oggettive, come le caratteristiche geografiche e sociali dei territori.

Ad esempio nelle aree metropolitane è stato molto più difficile reperire locali adatti a rispettare i rigidi requisiti strutturali previsti per le Comunità protette di tipo A e B a costi sostenibili. Nel 1997 la DCR 357, improvvidamente, conferiva un mandato terapeutico solo a CPA e CPB, prevedendo caratteristiche strutturali analoghe a quelle delle RAF: utili per anziani e disabili, ma del tutto superflue, e a volte controproducenti, per i pazienti psichiatrici. Di conseguenza le comunità protette hanno sviluppato quasi tutte caratteristiche strutturali “pesanti”: massimo dei posti letto previsti (20), per lo più in grandi stabili indipendenti, posti in aree periferiche o rurali, o addirittura dentro complessi di tipo para-ospedaliero, contigue ad altre strutture sanitarie.

E’ del tutto improprio sostenere che sia la pesantezza strutturale, di tipo para-ospedaliero, a conferire una funzione terapeutica alle comunità. Dalla legge 180 in poi, e alla luce di tutta la letteratura internazionale, nessuno può seriamente sostenere che per riabilitare i pazienti psichiatrici serva l’ospedale o strutture che dell’ospedale riproducono la logica ambientale e organizzativa. Infatti le CPA e CPB più serie ed efficaci, nonostante i criteri della 357, fanno di tutto per non sembrare e non funzionare come ospedali in miniatura.

Diversi Dipartimenti di salute mentale piemontesi, e molti gestori privati, (soprattutto, ma non solo, nelle aree metropolitane) hanno risolto in maniera diversa il problema, affidando una funzione terapeutica anche a strutture di civile abitazione. La 357 non lo prevedeva ma nemmeno lo vietava. Così, accanto ai gruppi appartamento leggeri anche in senso funzionale, rivolti a pazienti autonomi o bisognosi di sola assistenza, sono nate altre strutture, denominate gruppi appartamento ai sensi della 357, ma rivolte a pazienti molto più gravi e bisognosi di protezione ed intensità riabilitativa assai superiori. Vere e proprie strutture terapeutico riabilitative in contesti di civile abitazione: prive dei requisiti strutturali pesanti delle comunità protette, ma con dotazioni di personale, quantitative e qualitative, simili, a volte superiori, a quelle delle CPB.

I Dipartimenti che hanno seguito questa strategia (numerosi, ma non tutti, il che spiega in parte le differenze intra-regionali), pur in assenza di accreditamento, hanno stabilito rapporti contrattuali, di convenzione o appalto, con tutti i gruppi appartamento, e dunque ne conoscono nei dettagli l’organizzazione funzionale, gli standard di personale, i costi. Sanno quali hanno funzioni assistenziali (da SRP3), quali hanno funzione terapeutica (almeno da SRP2), e possono documentarlo con assoluta precisione.

La fondatezza di queste affermazioni emergerà con il previsto censimento, ma avremmo preferito che la Regione lo accertasse prima di usare la mannaia e decidere che i gruppi appartamento, solo perché condividono ancora la vecchia denominazione ex DCR 357, sono tutti assistenziali e dunque tutti extra-lea e dunque devono condividere tutti lo stesso costo pro-capite pro-die.

Ma prevedere funzioni terapeutico-riabilitative in normali alloggi di civile abitazione, per gruppi di pazienti inferiori a venti, è forse un azzardo? Viola qualche normativa relativa alla sicurezza? E’ una bizzarria locale, di qualche dipartimento piemontese troppo disinvolto, da sanare con urgenza?

Assolutamente no. Basta dare un’occhiata alle normative di altre Regioni importanti: in Lombardia, Lazio, Toscana, possono avere caratteristiche di civile abitazione anche strutture ad elevata e intermedia intensità terapeutica (SRP1 e 2) a totale carico della sanità, fino a dieci posti. In Emilia Romagna, Veneto e Puglia sono accreditate come SRP1 e 2 strutture di civile abitazione anche oltre i dieci posti; vengono solo richiesti alcuni requisiti strutturali aggiuntivi di buon senso (numero minimo di metri quadri per stanza, almeno un bagno, anche non attrezzato per disabili, ogni 4 posti e poco altro). Non si chiamano gruppi appartamento, ma hanno gli stessi standard funzionali e di personale di alcuni gruppi appartamento piemontesi operanti da anni.

Ad esempio un gruppo appartamento (con due nuclei da 5 posti) oggetto di una recente contrattualizzazione da parte di un ASL piemontese, rispetta lo standard di un rapporto dello 0,9 fra personale in servizio e utenti: quello che la Regione Veneto prevede per le Comunità Terapeutiche Riabilitative Protette di tipo 2 (classificate come SRP2), al 100% sanitarie, di massimo 14 posti e con requisiti di civile abitazione.

In Piemonte strutture di questo tipo ospitano oggi centinaia di pazienti gravi, spesso giovani e ancora instabili, in fase precoce di malattia, che l’applicazione della DGR costringerebbe ad espellere verso le uniche strutture accreditabili come SRP1 e 2 (le vecchie CPA e CPB), visto l’abbattimento degli standard di personale e la prevedibilissima impossibilità di pazienti e comuni di farsi carico delle rette al 60%, Tale inevitabile “deportazione” (spesso dai centri urbani verso zone rurali), per i pazienti costituirebbe un’inaccettabile regressione nel percorso di cura; e quindi, per la Regione, non certo un modo per spendere meglio i soldi, come dichiarato dall’Amministrazione, né tantomeno un risparmio, essendo le strutture di civile abitazione molto più convenienti, a parità di assistenza, rispetto a quelle in cui verrebbero dirottati i pazienti.

Sì, perché a parità di standard di personale, e nonostante il più ridotto numero di posti, le strutture di civile abitazione sono più economiche di circa il 15-20%: lo dimostrano dati pubblici, incontrovertibili e facilissimi da reperire. Infatti la leggerezza strutturale, unita alla flessibilità, consentono di realizzare economie di scala (funzionamento in rete, anche con condivisione di funzioni cruciali, come la copertura notturna o la pronta disponibilità, fra strutture diverse, fra di loro integrate).

Diverse ASL piemontesi hanno riconosciuto queste potenzialità dei gruppi appartamento terapeutici e dei progetti di domiciliarità ad essi integrati, favorendone la diffusione anche come strategia di controllo dei costi della residenzialità psichiatrica (al contrario di chi li considera come posti letto in eccesso rispetto agli standard e quindi spreco di risorse sanitarie).

Dove ciò è avvenuto, è stato possibile realizzare veri percorsi terapeutici integrati (come prescritto dal Piano d’Azioni Nazionale per la Salute mentale del 2013): dimissioni progettuali ed evolutive dalle strutture residenziali, con accompagnamento graduale dei pazienti verso una reale autonomia (progetti territoriali di domiciliarità) o verso situazioni di stabilità clinica, per le quali possono essere utili, anche a medio-lungo termine, i gruppi appartamento di taglio più assistenziale (SRP3 secondo il modello Agenas)

Al contrario, dove non è stata realizzata una rete intermedia di gruppi appartamento di tipo terapeutico, è spesso impossibile colmare il divario fra l’elevata protezione delle strutture comunitarie, gli appartamenti a bassa protezione, e il trattamento ambulatoriale ordinario, il che ha reso problematiche le dimissioni, gonfiando i costi della residenzialità psichiatrica.

Dal punto di vista clinico il punto di forza degli appartamenti è soprattutto la loro normalità: sono meno colpiti da stigma e pregiudizio sociale e sono più graditi da utenti e famiglie, in quanto abitazioni qualunque: come quelle in cui vivono tutti i cittadini, parte integrante del territorio. Obiettivo della riabilitazione psichiatrica è infatti di consentire a pazienti gravemente sofferenti di curarsi nel mondo normale, sfuggendo all’emarginazione e alla perdita dei diritti di cittadinanza.

In conclusione, formuliamo le seguenti proposte di miglioramento:
• le strutture di civile abitazione, ancora definite come gruppi appartamento, ma che possiedono dimostrabili standard terapeutico-riabilitativi, devono potersi accreditare come SRP2, ovvero come strutture residenziali psichiatriche ad intermedia intensità terapeutica. Come tali devono essere a totale carico del servizio sanitario nazionale e prevedere una durata definita dei trattamenti.
• Le uniche strutture da accreditare come SRP3, extra lea ai sensi del vigente Dpcm del 2001, dovrebbero essere quelle davvero a bassa assistenza: ovvero i gruppi appartamento coperti per fasce orarie, con prevalente personale di tipo assistenziale, rivolte a pazienti già autonomi o stabilizzati.
• Per tutte le strutture, escluse le CPA e CPB, dovrebbero essere previsti i criteri strutturali di civile abitazione, al massimo integrati da quelli richiesti da alcune Regioni, come Veneto, Emilia Romagna e Puglia. Dovrebbe essere cioè emendato il criterio della DGR che, vorrebbe imporre anche alle strutture di civile abitazione pesanti requisiti strutturali aggiuntivi (che nessuna delle Regioni citate prevede) come: ascensori, bagni per disabili, stanza operatori obbligatoria, bollatrice, segnaletica interna, ecc: forse utili in strutture per disabili o anziani, ma del tutto inutili, ed anzi controproducenti, in abitazioni per pazienti psichiatrici, la cui qualità e sicurezza non dipendono certo dall’essere forzate ad assumere standard da reparto ospedaliero.

CUI PRODEST??

CUI PRODEST?
Riflessioni di Fantapolitica di uno Psicologo Territoriale sulla Dgr sul riordino della residenzialità psichiatrica Piemontese

dubbio

Quelle che seguono sono solo fantasie, unico modo per resistere a quella che sembra essere una realtà troppo folle per essere vera.
La delibera di riordino dell’assistenza ai pazienti psichiatrici approvata ad inizio giugno dalla giunta regionale piemontese apre scenari assai cupi ed inquietanti.
Il testo ufficiale deve ad oggi essere ancora pubblicato. Circolano però dei documenti fra gli operatori che hanno scosso violentemente gli animi di tutti.
Fra le righe, ma non troppo, si prospetta una demolizione vera e propria di un sistema territoriale di eccellenza, fatto di comunità ma anche gruppi appartamento.
Vera novità della legge 180 (legge Basaglia) il gruppo appartamento si configura come un luogo in cui sia possibile lo svolgimento di programmi terapeutico – riabilitativi per utenti di competenza psichiatrica, da collocarsi in aree urbanizzate, facilmente accessibili evitando l’isolamento degli utenti.
Requisito strutturale unico e fondante è quello di possedere le caratteristiche di una civile abitazione. Una casa come la mia e la vostra dove poter “abitare” e non solo stare. In ospedale psichiatrico si “stava” e basta, aspettando la morte.
Nessuno pare soddisfatto di questa delibera, si lamentano tutti dal Servizio pubblico (i DSM) ai Comuni, dal privato profit per al privato sociale. Ultimi ma non ultime le associazioni dei familiari e dei pazienti.
In privato esponenti delle categorie su citata mi hanno detto letteralmente “ma questi sono pazzi!!”
Quindi come dicevano i Latini CUI PRODEST? A chi giova?
Facciamo delle fanta-ipotesi:
FASE 1 Le regole cui i gruppi appartamento verrebbero sottoposti (requisiti strutturali, tariffe, requisiti di personale ed altro) obbligherebbero i gestori degli stessi a rinunciare ai propri pazienti, dicendo alle ASL “per evitare perdite di esercizio e di fallire vi restituiamo i pazienti”
FASE 2 la Regione Piemonte farebbe una ricognizione dei bisogni e scoprirebbe che le ASL non sono in grado di gestire i pazienti “restituiti” dai gestori.
FASE 3 ASL e Regione Piemonte sarebbero giustamente obbligati a trovare un luogo dove “collocare” queste persone
FASE 4 A questo punto che si fa? Come si incrociano bisogni e risorse? Certo si potrebbero “ricollocare” i pazienti nelle CPA o CPB (le comunità protette), ma anche quelle non sono trattate bene dalla delibera e comunque non credo in grado di ospitare così tante persone. Quindi?
FASE 5 L’illuminazione!! Forse a quel punto qualche grande gruppo avrà pronto una soluzione. Piccoli minicomi perfettamente a norma (secondo le linee della delibera) che su economia di scala potrebbero reggere i criteri strutturali gestionali ed economici imposti dalla delibera. Questi ipotetici grandi gruppi direbbero alla Regione “beh noi abbiamo una soluzione”
FASE 6 L’autorizzazione e l’accreditamento, a quel punto necessario, di questi neo-lazzeretti da parte della Regione che “disperata” avrebbe solo questa occasione per sistemare tutte queste persone in un luogo ipercredibile (stra-accreditato) che se ne faccia carico.
Direte “beh fantasie” “teoria del complotto” “folle come i tuoi pazienti” “speculatore sulla pelle dei malati” e chi più ne ha più ne metta.
Lo anticipavo che era fantapolitica giusto? Ma a chi può giovare disintegrare un sistema di eccellenza così apprezzato in Italia e nel mondo?
Le spiegazioni fornite dalla Regione sono condivisibili: dobbiamo porre ordine, garantire equità, spendere meglio ecc.
Ma con una delibera così non si ottiene questo risultato anzi, nel lungo si spende di più e si peggiorano le condizioni della vita dei pazienti.
Questa è solo la mia fanta-opinione ma fatevi una vostra idea, leggete il documento, fra pochi giorni sarà pubblico.
A quel punto forse anche voi vi domanderete. CUI PRODEST? A chi giova…

Accreditamento o Azzeramento?

Accreditamento o Azzeramento?

 

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L’accreditamento in buona sostanza è una forma di garanzia per il fruitore finale di un servizio. Garanzia di efficacia, rispetto di standard scientifici ed etici e possibilità, per tutti noi, di una qualche forma di controllo sugli stessi.

Lo IAF – International Accreditation Forum, network mondiale per l’accreditamento: la descrive così:

“Accreditation is the independent evaluation of conformity assessment bodies against recognised standards to ensure their impartiality and competence. Through the application of national and international standards, government, procurers and consumers can have confidence in the calibration and test results, inspection reports and certifications provided”.

Se entro in una sala operatoria come paziente, e speriamo non capiti spesso, desidero fortemente che ad esempio siano perseguiti i seguenti obiettivi:

  • Operare il paziente corretto ed il sito corretto
  • Prevenire la ritenzione di materiale estraneo nel sito chirurgico
  • Identificare in modo corretto i campioni chirurgici
  • Preparare e posizionare in modo corretto il paziente
  • Prevenire i danni da anestesia garantendo le funzioni vitali
  • Gestire le vie aeree e la funzione respiratoria
  • Controllare e gestire il rischio emorragico
  • Prevenire le reazioni allergiche e gli eventi avversi della terapia farmacologica
  • Gestire in modo corretto il risveglio ed il controllo postoperatorio
  • Prevenire il tromboembolismo postoperatorio
  • Prevenire le infezioni del sito chirurgico
  • Promuovere un’efficace comunicazione in sala operatoria
  • Gestire in modo corretto il programma operatorio
  • Garantire la corretta redazione del registro operatorio
  • Garantire una corretta documentazione anestesiologica
  • Attivare sistemi di valutazione dell’attività in sala operatoria

[fonte OMS “Guidelines for Safe Surgery” con adattamenti alla realtà nazionale da parte  del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali]

Per ciascun punto esistono poi delle check list, delle procedure e protocolli validati da rispettare alla lettera. Il tutto appoggia su una solida letteratura clinico-scientifica internazionale. Ma se parliamo di un Gruppo Appartamento per persone che hanno l’anima lacerata, definiti pazienti psichiatrici cosa mi devo aspettare come accreditamento? Quanto può questo processo somigliare alla sala operatoria?

Partiamo dalle definizioni. cos’è un gruppo appartamento.

Dopo la rivoluzione della Legge n. 180 (legge Basaglia) inglobata poi nelle Legge n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.) e dopo la delibera del Consiglio Regionale del 28/01/1997, n. 357-1370 tutt’oggi in vigore seppur in discussione, si definiscono i Gruppi Appartamento : “quali soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”.

Luoghi in cui sia possibile lo svolgimento di programmi terapeutico-riabilitativi per utenti di esclusiva competenza psichiatrica, da collocarsi in aree urbanizzate, facilmente accessibili evitando l’isolamento degli utenti.

Requisito strutturale unico e fondante possedere le caratteristiche di una civile abitazione.

Una casa come la mia e la vostra dove poter “abitare” e non solo stare.

La riabilitazione psichiatrica infatti passa anche attraverso i concetti di casa e di abitare, spesso intesi con il medesimo significato, ma in realtà possibili rappresentazioni di un modo assai diverso di vivere. Se per casa si intende un luogo ove semplicemente vivere, non occorre manifestare particolari abilità, è sufficiente “stare” e questo è possibile in ogni luogo (dall’ospedale psichiatrico ad un alloggio) e a qualsiasi livello di riabilitazione raggiunta.

Abitare, invece,  può rappresentare qualcosa di più e di diverso: acquisire contrattualità, esercitare un potere, sia esso materiale o simbolico, essere protagonisti e partecipi di quanto si sta vivendo.  Il manicomio ha simboleggiato il luogo per eccellenza del “non abitare”, ma dello “stare”; per questo la svolta della psichiatria ha focalizzato gran parte del suo interesse sulla residenzialità; la storia di un paziente psichiatrico è anche un percorso di “case”, posti che come detto  non implicano necessariamente l’abitare.

Tornando a noi come si accredita un Gruppo Appartamento?? Si rispetta il concetto di civile abitazione o no? e se si come?

Prendiamo un esempio non tanto a caso unicamente sui requisiti strutturali (esistono anche quelli organizzativi di personale ecc.):

Avere una localizzazione idonea ad assicurare l’integrazione e la fruizione degli altri servizi del territorio; Sacrosanto

Rispondere ai requisiti previsti nella vigente normativa in ordine alla eliminazione delle barriere architettoniche; Hmm già casa mia e casa vostra forse sono fuori legge. Oddio è sacrosanto che se io fossi un paziente con disabilità fisica (non è così frequente nei pazienti psichiatrici per la mia esperienza) gradirei essere assistito ugualmente. Fino ad oggi essendo personalizzati i programmi terapeutici si è sempre trovata una soluzione dal basso condivisa, si cercava cioè quella migliore per il paziente.

Svolgere un’attività di rete con gli altri servizi del territorio, in modo da favorire l’integrazione dei pazienti con la comunità locale; Sacrosanto

Essere localizzati preferibilmente nel cuore degli insediamenti abitativi o comunque in una soluzione idonea a garantire una vita di relazione, anche mediante l’utilizzo delle infrastrutture presenti sul territorio (es. piscine, cinema, ecc.), al fine di favorire il reinserimento sociale del paziente psichiatrico, una volta stabilizzato; Sacrosanto

Garantire la possibilità di raggiungere facilmente la struttura con l’uso dei mezzi pubblici e privati per garantire la continuità e la frequenza delle visite dei familiari e conoscenti; Sacrosanto

Prevedere una personalizzazione delle stanze con arredi di tipo non ospedaliero; Sacrosanto

Essere organizzati in modo da garantire l’assenza di ostacoli fisici (es. arredi o terminali degli impianti) negli spazi di transito che possono impedire agli utenti e agli operatori di potersi muovere in sicurezza, anche in caso di emergenza e/o pericolo; Sacrosanto sempre nei limiti del buon senso, sennò le nostre case rischierebbero di essere tagliate fuori.

Essere organizzati in modo da limitare il più possibile i rischi derivanti da condotte pericolose messe in atto dai soggetti ospitati in momenti di crisi (es.: entrate/uscite sorvegliate, limitazione o controllo dell’accesso a locali e/o aree pericolose); Ahi Ahi Ahi questo potrebbe facilmente portare alle posate di plastica, le porte sprangate, le sedie ancorate per terra, la video sorveglianza, niente balconi e via dicendo. Casa mia e credo le vostre non andrebbero bene.

Prevedere una segnaletica interna semplice, localizzata in punti ben visibili, chiara, con caratteri di dimensioni tali da poter essere letti anche da chi ha problemi di vista con un buon contrasto rispetto allo sfondo; In teoria è giusto ma ancora una volta le nostre case non penso abbiano questo tipo di organizzazione

Prevedere nell’ingresso della struttura la presenza di uno schema che spieghi in modo chiaro e semplice la distribuzione degli spazi della stessa; idem con patate

Garantire l’adeguamento alle norme previste dal testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui al D.Lgs. n. 81 del 9 Aprile 2008 e D.Lgs. n. 106 del 3 Agosto 2009. Il possesso di tale requisito deve essere attestato nell’ambito di un’apposita relazione tecnica redatta da un professionista abilitato; Giustissimo per il personale ma le nostre case se lo sognano.

Quindi come si fa ad accreditare un Gruppo Appartamento e che conseguenze può avere per gli ospiti che ad oggi vi abitano?

Più ci si avvicina al modello ospedaliero, o alle case di riposo, più si può star tranquilli, ma di fatto l’accreditamento più semplice sarebbe rifare i manicomi. Allora si avrebbero tutte quelle garanzie strutturali di cui sopra.

Il rischio però è che dall’accreditamento si passi in un paio di anni all’azzeramento della rete territoriale dei gruppi appartamento in Piemonte, di tutti quelli (civili abitazioni) in palazzine anni 60/70, nei centri storici, insomma in case comuni – privi di requisiti – che: verrebbero screditati prima e svuotati poi. Probabilmente sostituiti nel tempo, spostando i pazienti, in comunità perfettamente a norma che definirei Minicomi. Piccoli manicomi in cui si perderebbe l’anima della 180 conservando tutte le norme strutturali che ho elencato. Manicomi nel senso della rinascita di un pensiero fortemente istituzionalizzante e di esclusione sociale.

E quindi? Esistono alternative? La risposta è ovviamente si.

Serve la volontà politica e la cultura per sostenerle però.

Per adesso fra le varie possibilità, e ne esistono (saranno oggetto di un altro articolo), credo che preservare il concetto cardine di civile abitazione sia ancora la maggior garanzia per chi ci vive.

Toccasse a me andarci ad abitare come parte di un percorso di cura, gradirei vivere in una casa “normale” anche “sgangherata” in mezzo alla gente “normale” piuttosto che in un luogo sicuro, sovra-accreditato ma senza anima simile ai vecchi lazzaretti.

SINTESI NORMATIVA AD OGGI

SINTESI NORMATIVA

 

La necessità di colmare il “vuoto normativo” (fabbisogno, accreditamento) rispetto alla residenzialità dedicata agli utenti della Salute Mentale pare un processo in fase di definizione. In questi ultimi anni le proposte e i modelli hanno descritto scenari vari, arrivando oggi a una proposta (Cavallera) molto complessa e che rischia di allontanare questa tipologia di servizio dai reali bisogni dell’utenza.

Ci sono molte leggi e delibere che forniscono parametri e dettano regole ma possiamo sostanzialmente individuare 3 vincoli normativi attorno ai quali bisogna ragionare:

 

  • il recepimento dell’accordo Stato – Regioni che individua tipologie di strutture in base al livello di intensità e rimanda alla Regione la definizione dei parametri specifici
  • il piano di rientro economico 2013-2015 della Regione Piemonte che definisce “eccessivi” gli attuali posti letto sia delle CPB che dei gruppi appartamento e quindi chiede una razionalizzazione
  • l’accreditamento (strutturale e organizzativo) necessario per l’erogazione di tali servizi

 

L’accordo Stato-Regioni prevede la differenziazione delle strutture in base sia alle necessità terapeutico-riabilitative sia alle necessità assistenziali: sappiamo come queste 2 dimensioni siano fortemente interconnesse e sappiamo come l’assistenza spesso includa la riabilitazione e come la netta divisione tra i 2 aspetti sia solo un artificio che solo in alcuni casi poco frequenti può avere un senso. Fondare, invece, la riorganizzazione massicciamente su tale aspetto appare un difetto che porta ad un conseguente scenario in base al quale le strutture e gli alloggi sono o prevalentemente riabilitativi o prevalentemente assistenziali; si tratterebbe cioè di costruire dei servizi cui devono adattarsi i pazienti (come se dovessimo fornire dei vestiti che devono andare bene alle persone, prima ancora di prendere le loro misure). Gli interventi sull’utenza psichiatrica, invece, devono essere costruiti su misura perché le necessità terapeutiche e assistenziali (e molte altre) assumono tutte le volte un mix unico e irripetibile, così come unici e irripetibili sono gli individui che le incarnano. Anche l’organizzazione del personale appare rispondere più ad un’esigenza di chiarezza normativa che ad un reale bisogno del paziente: nell’accordo stato regioni si trasferisce all’interno della struttura o dell’alloggio tutto il necessario fabbisogno del personale (dall’oss allo psichiatra); partendo dalla realtà di oggi – spesso efficace ed efficiente – le figure professionali che ruotano introno ai pazienti arrivano in misura varia dal DSM (o CSM) e dall’ente gestore della struttura o dell’alloggio e spesso è proprio l’interconnessione tra infermiere del CSM, Psicologo dell’ente gestore e medico di base che descrive quel contesto professionale utile all’inclusione sociale ed evita il rischio di affidare la gestione del paziente in toto ad un ente.

Insomma partendo dalle esigenze normative (ed economiche) si rischia di voler ingessare un sistema di servizi che deve essere mobile, flessibile e girare intorno ai bisogni dell’utenza (un film non può essere una fotografia).

 

Il piano di rientro economico obbliga la regione Piemonte a ridefinire il sistema di servizi residenziali per la psichiatria: oggi in Piemonte ci sono 56 CPB accreditate (per 1067 posti letto + altri 441 in “comunità alloggio”); il piano di rientro sostiene che sono troppi e che, in base al fabbisogno nazionale di posti letto, vanni ridotti a 900 tra CPB e Comunità Alloggio (invece di 1508).

I gruppi appartamento o alloggi assistiti in base al censimento effettuato dalla Regione nel settembre 2012 forniscono 1500 circa di posti letto. Ancora non si conosce il fabbisogno di posti letto per quanto riguarda i gruppi appartamento ma si presume che i 1500 circa disponibili ad oggi siano eccessivi.

Ora, alcune domande e preoccupazioni: se, ad oggi, ci sono circa 3000 pazienti inseriti in strutture e alloggi perché il fabbisogno dev’essere inferiore? Si è ecceduto nell’uso di tali strumenti? È vero che ci sono gli “extra regione”: pazienti che da altre regioni, carenti di strutture, vengono inseriti in piemonte e in alcune sono definiti nel piano di rientro “in quantità considerevole soprattutto in alcune strutture residenziali” e questo potrebbe essere un primo fronte su cui intervenire (magari rivedendo il fabbisogno regionale).

E come mai nella proposta di delibera a firma Cavallera le cpb tutte vengono riconvertite in srp2? “Le strutture residenziali “Comunità Protette di tipo B”, ad oggi già autorizzate ed accreditate (56 strutture per 1067 posti letto) verranno ricondotte nelle SRP 2 di tipo A con apposito atto di Giunta.” Questo significa che i 1067 posti presenti in strutture vengono garantiti e, allora, l’eventuale taglio di posti letto verrà prevalentemente attuato nella così detta “residenzialità leggera” (appartamenti e alloggi)? Non sono invece troppe le CPB (o SRP 2 tipo A)?

In questo scenario di ristrettezze economiche si rischia una contrapposizione (e anche conflitto) tra residenzialità di tipo strutturale (Comunità protette e Comunità alloggio) e residenzialità “leggera” che porterebbe a una sconfitta per i pazienti, in ogni caso. Se sia preferibile una comunità (magari dislocata in periferia, in collina) o un appartamento (magari in centro paese) credo che non sia possibile definirlo a priori, credo che solo le caratteristiche (necessità, limiti, potenzialità, compromissione, rete familiare e sociale..) del singolo paziente possano suggerire quale posto in un determinato periodo sia più adeguato e questa operazione, con tutte le approssimazioni delle nostre conoscenze, può essere svolta solo dai curanti in unione con i familiari e con il singolo paziente ovviamente.

Lo spostamento nel comparto sociale di ciò che fino ad oggi è stato sanità pare un movimento che finge di risparmiare (è come se in una famiglia sia la moglie a pagare le bollette invece del marito, nel totale non cambia la spesa); tagliare nell’ambito psichiatria significa tagliare risorse agli enti gestori, cioè agli operatori, cioè agli utenti. “Razionalizzare” la spesa può portare al rischio di privilegiare i contenitori più grandi (CPB) – che riescono ad abbattere i costi perché hanno numeri più importanti – a sfavore di quelli più piccoli: ma questa operazione è deleteria per i pazienti (immaginare che vengano spostati pazienti da alloggi qua e là disseminati nel territorio a strutture periferiche è spiacevole, oltre al fatto che l’obiettivo degli interventi è l’inclusione sociale, non l’esclusione).

Alcune possibilità (e proposte) rispetto al riordino della residenzialità: istituire un tavolo in cui regione e DSM decidano: 1) la Regione insieme ai DSM effettui una mappatura del proprio territorio, sia in termini di fabbisogno (utenti attualmente inseriti in strutture) sia in termini di strutture attualmente operative 2) saturare le strutture del proprio territorio con i pazienti del DSM territoriale 3) a partire da un budget condiviso con la Regione definire gli interventi possibili insieme agli enti gestori. Il DSM appare il più idoneo (conosce i pazienti, il territorio con le sue risorse, le strutture e gli enti gestori) a trovare la soluzione più accettabile, magari non la migliore, ma quella più vicina ai bisogni degli utenti. Questo processo va effettuato con la regione che, dovendo erogare finanziamenti, deve monitorare le scelte e conoscere i ragionamenti: è il difficile ma necessario dialogo tra portafoglio e clinica, tra ciò che bisognerebbe fare e ciò che si può fare.

 

L’accreditamento parte dall’assunto che i luoghi in cui avvengono interventi socio sanitari devono essere riconosciuti, autorizzati e, appunto, accreditati. E l’accreditamento prevede il rispetto di requisiti strutturali e organizzativi (personale) specifici.

Per quanto riguarda i requisiti strutturali si evidenzia un rischio per gli appartamenti e gli alloggi: che vengano richiesti adeguamenti inutili e non sostenibili. Inutili perché l’utenza psichiatrica nella stragrande maggioranza dei casi non ha bisogno di ascensori, bagni per disabili o tot metri quadri in più di quanto ne ha bisogno una persona senza problematiche psichiatriche. Impossibile perché certi adeguamenti strutturali non sono realizzabili in alloggi situati nei centri storici e poi perché gli enti gestori generalmente non possono assumersi un tale onere. È particolare come per l’utenza psichiatrica si intenda andare verso un modello sanitario non solo lontano dai bisogni dell’utenza ma altresì dannoso. Mentre il modello sanitario e quindi i rigidi e sacrosanti requisiti strutturali ben si adattano per esempio ad una sala operatoria, ad una grande struttura per anziani, ad uno studio dentistico ecc.. cosa c’entrano con una casa in cui vivono, per esempio, 3 pazienti ? nel momento in cui tale casa è una civile abitazione è sufficiente! Con l’accreditamento, invece, si tende a trasformare una semplice casa in un presidio sanitario (non solo non migliora l’efficacia dei progetti di intervento ma addirittura diventa una possibile stigmatizzazione per i pazienti).

Rispetto all’accreditamento strutturale, la Regione Piemonte ha già definito dei criteri sia per la residenzialità rivolta ai minori e sia per la residenzialità destinata alle patologie della dipendenza. In entrambi i settori, paragonabili alla psichiatria rispetto alle esigenze dei pazienti nelle abitazioni, si richiede che vengano rispettati i criteri della “civile abitazione”.

Come nel caso dei minori “Per ciò che riguarda l’accessibilità delle parti comuni, essendo le strutture per minori considerate principalmente come unità immobiliari residenziali, qualora gli stessi non abbiano più di tre livelli fuori terra è consentita la deroga all’installazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, ivi compresi i servoscala, purché sia assicurata la possibilità della loro installazione in un tempo successivo. L’ascensore va comunque installato in tutti i casi in cui l’accesso alla più alta unità immobiliare è posto oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali livelli interrati e/o porticati, e in ogni caso, qualora la struttura accolga utenti con disabilità motoria.

Insomma, se un alloggio è sano e agibile (“affittabile”), regolarmente iscritto al catasto, con impianti a norma e qualche accorgimento in più (questo sì accreditabile, per esempio rilevatori anti fumo, piastre elettriche per la cucina o altro), ha le carte in regola per “ricevere” un intervento rivolto all’utenza psichiatrica. Peraltro è proprio questo lo spirito con cui son nati tali alloggi (che siano inseriti in contesti urbani, per facilitare l’inclusione quindi meglio se in condomini normali in cui poter conoscere anche gli altri vicini).

I requisiti del personale: l’accreditamento se applicato rigidamente obbliga gli enti gestori a fornire tot minuti di una determinata professionalità per ogni utente al dì: la nostra esperienza ci dimostra che per attuare un intervento efficace ed efficiente è necessario usare la flessibilità responsabile anche rispetto agli interventi psicologici, educativi e assistenziali (a volte il paziente richiede di più, a volte di meno e pensare di offrire sempre lo stesso tipo di intervento appare non solo inutile ma anche dannoso sia economicamente che dal punto di vista riabilitativo).

In linea generale riteniamo che siano i DSM territoriali a dover costruire nel territorio e nelle realtà residenziali interventi calibrati non solo sui pazienti di questo o quell’alloggio ma anche calibrati su un determinato territorio che ha una storia che contiene risorse utili ai pazienti.

Nello specifico le figure sanitarie e sociosanitarie si devono integrare nel mix di cui sopra (interconnessione tra necessità terapeutico riabilitative e assistenziali) con flessibilità e unicità (rispetto ai bisogni unici del singolo paziente o del gruppo).

Figure sanitarie:

  • medico psichiatra
  • psicologo iscritto all’albo
  • infermiere
  • tecnico della riabilitazione psichiatrica
  • educatore professionale interfacoltà
  • s.s.

Figure socio-sanitarie:

–        dottore in psicologia;

–        educatore professionale (con laurea triennale in scienza dell’educazione, o corso di riqualificazione ai sensi della DGR 258 – 45349 del 12/05/1995 o, fino e non oltre alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, titolo conseguito successivamente alla attivazione delle lauree triennali presso scuole autorizzate dalla Regione Piemonte);

–        dottore in scienze e tecniche psicologiche (laurea triennale).

Partendo da queste figure, dalle necessità dei pazienti e dalle risorse del territorio il DSM “compone” l’equipe più consono a rispondere al servizio; in alternativa si possono identificare delle percentuali all’interno delle quali DSM ed ente gestore può “muoversi”, garantendo la prevalenza di sanitario rispetto al sociale o viceversa.

MODELLO LOMBARDO, O SI CAMBIA VERSO? IN PIEMONTE GLI APPARTAMENTI SONO LEA!

Ancora una volta: che cosa è LEA in residenzialità psichiatrica, a norma di legge? La normativa nazionale implicata è il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14/02/2001, che all’allegato 1, punto 1.c, pag 38, considera extra-LEA le “prestazioni terapeutico riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, prevedendo un contributo del 60% a carico dell’utente o del Comune. (http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

Ma che cosa s’intende per “strutture a bassa intensità assistenziale”?

L’interpretazione adottata negli anni scorsi dalla Regione Piemonte, e che confidiamo verrà superata dall’attuale Giunta, è quella per cui s’intenderebbe qualunque struttura classificata come “gruppo appartamento” secondo la Delibera del Consiglio Regionale n° 357 del 1997. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

In effetti la DCR 357 definiva i gruppi appartamento come: “soluzioni abitative per rispondere a specifiche esigenze di residenzialità assistita di tipo non asilare, rivolte a pazienti giunti in una fase avanzata del loro reinserimento sociale”; fermandosi a questa definizione si potrebbe concludere che si tratti sempre di  strutture a bassa assistenza, per pazienti autonomi.

In realtà, lo sviluppo concreto dei gruppi appartamento piemontesi è andato in una direzione molto diversa: la DCR 357 non prevedeva per essi alcun preciso standard di copertura oraria, né di profilo professionale degli operatori; sono così nate, negli anni, residenze accomunate dalla denominazione di gruppo appartamento, ma provviste di intensità e qualità di assistenza assai varie. Per molte di queste la definizione di “struttura a bassa intensità assistenziale” è assolutamente inapplicabile.

Non comprendiamo come potrebbe essere attribuita tale qualifica ad abitazioni con una copertura educativa o psicologica di 12 o anche 24 ore al giorno, strettamente integrate con i Csm, gestite da équipes multidisciplinari, in cui l’organizzazione e il profilo professionale degli operatori non sono pensati per utenti anziani e bisognosi di badanza, o adulti già riabilitati e indipendenti, ma per utenti problematici e instabili; utenti che spesso attraversano una fase precoce del percorso riabilitativo, e che trovano molto meno traumatico e stigmatizzante l’ingresso in un contesto abitativo normale, in un comune quartiere urbano, piuttosto che in grandi strutture simil-ospedaliere e isolate dal mondo.

Le vere strutture a bassa intensità assistenziale esistono, ma sono solo una piccola percentuale dei gruppi appartamento operanti in Piemonte. La maggioranza di questi hanno caratteristiche non di soluzioni abitative, ma di vere e proprie abitazioni terapeutiche, con livelli intermedi o elevati d’intensità riabilitativa e assistenziale e dunque un profilo assolutamente diverso da quelle che il DPCM del 2001 esclude dai LEA.

Al proposito è istruttivo il confronto con la Regione Lombardia, che la Giunta Cota aveva, un po’ maldestramente, eletto a modello, nel suo fallito tentativo di normare il settore.

In Lombardia i gruppi appartamento, o progetti di residenzialità leggera, sono regolamentati da una Delibera di Giunta Regionale del 2008 (che qualche “tecnico d’area” della giunta Cota avrebbe voluto limitarsi a “fotocopiare”) sulla base della quale hanno assunto un profilo molto rigido, che li ha ridotti a realtà marginale. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Page&childpagename=DG_Sanita/Page/NormativaDetail&pagename=DG_SANWrapper&cid=1213275902673&keyid=3161

Sono pensate come pure realtà assistenziali socio-sanitarie, escluse dai LEA; hanno una tariffa sanitaria fissa di 45 euro al giorno, che consente davvero poche ore di assistenza (intorno a 3 ore al giorno, in media); la quota sociale è a carico degli utenti che possono permettersela, o dei Comuni e dei servizi sociali, che però, frequentemente, rifiutano di farsene carico, come documenta una recente indagine, promossa dalla Regione stessa. http://www.sanita.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Sanita%2FDetail&cid=1213636403829&pagename=DG_SANWrapper

Il risultato è che il numero totale di utenti ospitati in strutture di questo tipo, in tutta la Lombardia, è davvero trascurabile: 125 appartamenti con 399 utenti su una popolazione totale di circa nove milioni e novecentomila abitanti, il che significa un tasso di 4 utenti ogni centomila abitanti.

Tanto per fare un paragone, solo l’Asl TO1 di Torino, che ha circa cinquecentomila abitanti, gestisce 64 gruppi appartamento, con 260 utenti inseriti (il tasso è di 52 utenti ogni centomila abitanti, tredici volte superiore a quello lombardo); nel territorio della Asl TO4, anch’essa con mezzo milione di abitanti, sono stati censiti 57 appartamenti con circa 230 utenti (tasso di 46 utenti ogni centomila abitanti, più di undici volte superiore).

Dei 57 gruppi appartamento censiti nel territorio della AslTO4 nell’anno 2013, 31 (54%) hanno una copertura sulle 12 o sulle 24 ore; quelli coperti sulle 24 ore sono 20 (35%). La tariffa giornaliera, nella grande maggioranza dei casi, è attorno ai 90-100 euro, in sporadici casi scende a 50-60 o supera i 150; in nessun caso è bassa come in Lombardia.

Come si spiega questa enorme differenza? Non certo con l’eccessiva prodigalità della Regione Piemonte nel remunerare le strutture cosiddette leggere. Si tratta, piuttosto, di una differenza culturale e di modello.

E’ evidente che stiamo parlando di realtà completamente diverse. Le scelte normative della Regione Lombardia hanno ridotto la residenzialità leggera a uno strumento residuale, adatto a una ristrettissima minoranza di utenti.

Nel modello lombardo, imposto dalla Giunta Formigoni a partire dallo scorso decennio, la grande maggioranza dei pazienti bisognosi di interventi di residenzialità non sono inseriti in normali abitazioni a valenza terapeutica, integrate nel territorio, ma in istituzioni a elevata connotazione sanitaria, o addirittura simil-ospedaliere, con una presenza di ore mediche e infermieristiche quasi da reparto per acuti, e con rette elevate (da 150 a 180 euro al dì pro-capite)

Esistono infatti in Lombardia 3667 posti in comunità psichiatriche, di cui 1150 nelle  comunità definite come  riabilitative (CRA e CRM)  e 2517 nelle comunità definite  di area assistenziale.(CPA e CPM)

http://www.sanita.regione.lombardia.it/shared/ccurl/501/112/piano_regionale_salute_mentale_2004_2012.pdf

Per ogni posto di residenzialità leggera sono attivi, cioè, circa dieci posti in comunità. Tre quarti delle comunità riabilitative e due terzi di quelle assistenziali sono ad alta assistenza (CRA e CPA) , le restanti a media assistenza (CRM e CPM). L’ottanta per cento di esse sono coperte sulle 24 ore (tutte, tranne le CPM, assistenziali a media assistenza, coperte 12 ore) ; quelle riabilitative ad elevata assistenza (CRA)  prevedono la presenza di almeno un infermiere 24 ore al giorno, di due operatori la notte, di un medico tutti i giorni per otto ore e il resto in pronta disponibilità: requisiti analoghi a quelli di un reparto ospedaliero per acuti (spdc). http://www.angsalombardia.it/objects/riordino_residenzialita.pdf

Sono poi diffuse strutture (ad esempio queste: http://www.asfra.org/casa_iris.php oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cpa_01.html oppure http://www.fatebenefratelli.it/sacrocuoregesu/cra.html) che, all’interno dello stesso comprensorio, ospitano più di una comunità da 20 posti, da due fino a quattro, magari confinanti con altre strutture destinate a diversi utenti, come anziani o disabili;  il che conferisce all’insieme una connotazione sanitaria-ospedaliera molto netta, e di separazione dal mondo normale, non certo in accordo con i principi della riabilitazione psichiatrica.

Peraltro, tutte le comunità psichiatriche lombarde sono a totale carico della sanità e non prevedono una compartecipazione da parte del Comune o del cittadino, che è riservata alle sole strutture di residenzialità leggera.

Nel complesso, che cosa ci insegna il confronto con l’esperienza lombarda?

  1. Se la residenzialità, che chiamiamo leggera in quanto attuata in normali abitazioni, anziché in “pesanti” strutture sanitarie para-ospedaliere, viene irrigidita da normative che la costringono a diventare leggera anche in senso funzionale (scarsa copertura quantitativa e qualitativa di operatori), si riduce a una  realtà irrilevante, che riguarda un’esigua minoranza di utenti: circa uno su dieci
  2. Lungi dal determinare un risparmio, la liquidazione della residenzialità leggera dirotta nove utenti su dieci in strutture “pesanti” sia in senso strutturale (istituzione simil-ospedaliere) che funzionale, molto più costose
  3. E’ invece possibile utilizzare la residenzialità leggera in modo più flessibile, prevedendo, in normali contesti abitativi non sanitarizzati, progetti riabilitativi di piccolo gruppo, a connotazione terapeutica non inferiore a quella delle strutture para-ospedaliere e con livelli variabili di assistenza-protezione, nonostante la minore presenza di figure mediche e infermieristiche, a vantaggio di quelle educative e psicologiche.
  4. Si viene così a colmare lo scalino che esiste in Lombardia fra la residenzialità leggera (tariffa di 45 euro) e le comunità a media assistenza protette sulle 24 o sulle 12 ore (tariffa di 140 e 110 euro rispettivamente per quelle a valenza riabilitativa, CRM, o assistenziale, CPM). In Piemonte esistono molti gruppi appartamento che costano fra 70 e 110 euro, organizzati in modo flessibile, che svolgono un’irrinunciabile funzione riabilitativa, nell’ambito di percorsi complessi, e che non possono in alcun modo perdere il carattere di strumenti terapeutici essenziali, inequivocabilmente LEA.
  5. Questo non toglie che continuino ad avere un ruolo fondamentale anche le comunità “pesanti”, a maggiore connotazione sanitaria, che in Piemonte si chiamano Comunità protette di tipo A e B, e che hanno svolto negli anni una funzione molto importante, in integrazione e dialettica con i gruppi appartamento e con gli altri progetti di riabilitazione territoriale. Nessuno pensa che debbano essere svalutate o eliminate, ma certo non possono diventare l’unico standard, come accadrebbe inevitabilmente se le residenzialità leggera, anche in Piemonte, fosse ridotta ai minimi termini con una regolamentazione in stile lombardo. Abbiamo già illustrato le nefaste conseguenze, dal punto di vista clinico ed economico, che ne deriverebbero. http://abitazioniterapeutiche.it/escludere-dai-lea-la-riabilitazione-psichiatrica-ecco-perche-e-unidea-anti-scientifica-e-anti-economica/
  6. Molte strutture operanti in Piemonte, e classificate come gruppi appartamento in base alla DCR 357, dovrebbero essere ridefinite come strutture a intermedia o addirittura a elevata intensità riabilitativa (SRP2 o SRP1) secondo i parametri del documento della Conferenza Stato-Regioni, che il Piemonte ha recepito nel 2013, e che dovrà applicare stabilendo i criteri autorizzativi. In tal modo si eliminerebbe ogni dubbio circa il loro carattere di strutture rientranti nei LEA. Peraltro,  molte di queste strutture, anche in base ai parametri lombardi, sarebbero comprese fra le CRM o CPM (comunità a media assistenza) e non nella residenzialità leggera.
  7. Ma forse l’aspetto in assoluto più importante è che il concetto di LEA in salute mentale, come prevede in maniera esplicita il Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale del 2013, deve essere inteso: “come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf
  8. I gruppi appartamento hanno una valenza terapeutica, soprattutto perché non sono entità a se stanti, ma sono componenti fondamentali di questi percorsi di presa in carico: reti di strutture e progetti riabilitativi territoriali (come la domiciliarità, le borse lavoro, lo Iesa), che riescono a realizzare sinergie evolutive. Anche le strutture più protette difficilmente potrebbero realizzare i loro obiettivi terapeutici (e soprattutto rispettare i rigidi limiti di durata degli inserimenti previsti sulla carta) senza una strutturale integrazione con altre agenzie e progettualità, nell’ambito dei percorsi di cura complessivi.
  9. Il concetto di rete fra strutture, e fra progetti riabilitativi fra loro integrati, e la sottolineatura del ruolo fondamentale di coordinamento da parte del Centro di salute mentale pubblico, se è molto valorizzato dal Piano d’Azioni nazionale per la Salute Mentale, è purtroppo poco presente nel documento della Conferenza Stato –Regioni sulla residenzialità; ed è naturalmente del tutto assente nel modello lombardo e nelle proposte di regolamentazione della Giunta Cota. D’altra parte, l’ideologia formigoniana, dei pacchetti di prestazioni da fornire al consumatore-utente, valorizza il concetto di concorrenza fra fornitori ma non certo quello di rete o di sinergie, e tantomeno è disposta a riconoscere un ruolo centrale al servizio pubblico. http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-in-lombardia/
  10. Viceversa, tale centralità è indispensabile, soprattutto in salute mentale, e non per ragioni ideologiche, ma per l’oggettiva difficoltà del presunto “consumatore-utente”, condizionato dalla sua patologia, a compiere da solo le scelte migliori circa le opzioni terapeutiche disponibili. Non basta che ci sia un’ampia lista di strutture accreditate, pubbliche e private, rigorosamente paritarie, perché utenti e familiari siano liberi di scegliere il meglio. La scelta libera e consapevole è piuttosto il risultato di un processo, in genere tortuoso, di esperienze, fallimenti, negoziazioni, ripartenze. Un percorso che ha poche speranze di avere sbocchi costruttivi se non viene accompagnato e guidato; e se le agenzie coinvolte nelle varie fasi non sono integrate fra di loro e accomunate da alcuni principi di fondo. Il principio più importante è che l’utente sia considerato un interlocutore da coinvolgere, e non un oggetto passivo su cui applicare terapie standard. Ma questo non significa che lo si possa trattare come un qualunque consumatore.
  11. Per questo non crediamo che basti la compilazione di un progetto individuale d’invio alle strutture residenziali da parte del Csm (il cosiddetto Piano Terapeutico Iindividuale, PTI, previsto dalla normativa lombarda e fatto proprio dalla Conferenza Stato-Regioni). Senza una precisa responsabilizzazione dei servizi di salute mentale pubblici anche nella gestione diretta di reti di strutture residenziali, e di progetti riabilitativi complessi, in regime di co-progettazione e di reciproco controllo e stimolo con il privato (requisito che la DCR 357 prescriveva ai Dipartimenti di salute mentale e che sembra invece scomparso dall’orizzonte delle nuove ipotesi di regolamentazione), rischia di fallire il nostro obiettivo primario: mettere al centro i bisogni di salute e di riabilitazione degli utenti, anziché gli interessi dei fornitori o le inerzie del sistema.

Escludere dai LEA la riabilitazione psichiatrica? Ecco perché è un’idea anti-scientifica e anti-economica

 LA VECCHIA AMMINISTRAZIONE REGIONALE PIEMONTESE HA ESCLUSO DAI LEA (i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni cui tutti i cittadini hanno diritto gratuitamente) i principali capisaldi della riabilitazione psichiatrica: borse lavoro, assegni terapeutici e  residenzialità leggera, tra cui, in primo luogo, i gruppi appartamento.

La motivazione addotta è di tipo economico e la responsabilità della scelta viene indebitamente attribuita al governo nazionale. In una Deliberazione del 21 maggio 2014, 4 giorni prima delle elezioni, la Giunta Cota scrive:

Nell’ambito della verifica dell’attuazione del Piano di rientro della spesa sanitaria, il tavolo nazionale di verifica e monitoraggio dei LEA ha richiesto alla Regione Piemonte  il riallineamento delle quote di compartecipazione alla spesa da parte del servizio sanitario regionale, prevedendo che le Asl, a decorrere dal gennaio 2014, non possano più scrivere nei loro bilanci risorse per prestazioni aggiuntive oltre i Lea previsti a livello nazionale”.

E specifica: “Tra queste prestazioni aggiuntive, particolare rilievo assumono  quelle relative agli assegni terapeutici per pazienti psichiatrici alternativi al ricovero in struttura, alle borse lavoro per pazienti psichiatrici, alla copertura della quota sociale per i gruppi appartamento psichiatrici”. (http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/25/attach/dgr_07629_070_21052014.pdf)

La normativa nazionale a cui si fa riferimento è il D.P.C.M 14/02/2001, Allegato 1, punto 1.c, dove si parla di “prestazioni sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali è stata prevista una percentuale di costo  non attribuibile alle risorse finanziarie  destinate al S.S.N.”

(http://www.saluter.it/documentazione/leggi/nazionali/decreti-ministeriali/dpcm-29-11-2001-definizione-dei-livelli-essenziali-di-assistenza)

E’ davvero difficile comprendere come la delibera regionale abbia potuto ritenere applicabile questa definizione agli assegni terapeutici, alle borse lavoro (cioè ai tirocini a valenza terapeutico riabilitativa) e ai gruppi appartamento psichiatrici (la cosiddetta “residenzialità leggera”)

Si tratta, infatti, di prestazioni che hanno una chiara e inequivoca natura terapeutico-riabilitativa; forse, in assoluto, le più coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica, così come è oggi definita a livello internazionale. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf) Non è sostenibile che, in esse, la componente sanitaria e quella sociale non siano distinguibili. 

Perché sia da considerarsi sanitario, un intervento deve possedere alcuni requisiti e la riabilitazione psichiatrica li possiede tutti. In primo luogo, serve a migliorare gravi problemi di salute. In secondo luogo si avvale di tecniche validate, che richiedono una competenza professionale specifica, e hanno un’efficacia comprovata con metodo scientifico, e riconosciuta da milioni di utenti e familiari che ne usufruiscono da decenni in tante parti del mondo. (http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf)

Sociali sono gli ambiti di applicazione dei risultati (vivere in autonomia, lavorare, formarsi una famiglia, ecc.) e psicosociali sono gli strumenti operativi, ma non certo il processo in sé.

I disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone; la compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui migliorare il funzionamento e l’inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario.

Inoltre, è noto che il ricorso ampio e strutturato a programmi riabilitativi territoriali, come quelli di domiciliarità e di residenzialità leggera, è la strategia più efficace per ridurre i principali capitoli di  spesa dei dipartimenti di salute mentale: i ricoveri in ospedale e casa di cura e, soprattutto, le strutture residenziali “pesanti”.

L’applicazione della delibera del 21 maggio scorso avrebbe dunque conseguenze disastrose dal punto di vista clinico, e sortirebbe l’effetto opposto a quello ipotizzato, dal punto di vista economico.

Cercheremo di argomentare nel modo più preciso possibile ognuna di queste affermazioni.

CHE COSA, IN SALUTE MENTALE, SI PUO’ CONSIDERARE TERAPEUTICO-RIABILITATIVO, dunque integralmente sanitario?

La risposta va cercata nella letteratura scientifica internazionale e non certo nelle normative o nelle delibere regionali. D’altra nessuna normativa nazionale si è mai sognata di contraddire i principi della letteratura, né di escludere la riabilitazione psichiatrica dai livelli essenziali di assistenza.

Lo stesso Allegato 1 del D.P.C.M. 2001 chiamato in causa, include fra le prestazioni a carico totale del Servizio sanitario nazionale, a pagina 33: “le prestazioni ambulatoriali, riabilitative e socio-riabilitative presso il domicilio”; a pagina 35: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime semiresidenziale”; a pagina 38: “le prestazioni diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socio-riabilitative in regime residenziale”.

Tuttavia, nella stessa pagina 38 del D.P.C.M. appare il paragrafo che è stato utilizzato dalla vecchia Giunta, con un‘interpretazione a nostro avviso fuorviante, per giustificare il declassamento ad extra-LEA.  In esso si prevede una compartecipazione del 60% da parte dell’utente o del Comune per “accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale e programmi di inserimento sociale e lavorativo”. Consideriamo ciascuno di questi punti, cominciando dall’ultimo:

  • 1. programmi di inserimento lavorativo. L’equivoco riguarda la differenza fra diritto all’accesso al mondo del lavoro per le persone svantaggiate (obiettivo chiaramente sociale) e interventi riabilitativi sulle abilità lavorative (obiettivo chiaramente sanitario).

Le cosiddette borse lavoro, meglio definite come tirocini lavorativi a carattere terapeutico-riabilitativo, rientrano senza il minimo dubbio nella seconda categoria. Non hanno l’obiettivo di garantire al paziente un posto di lavoro, né un reddito minimo, bensì di agire sulle difficoltà di funzionamento relazionale, correlate alla patologia, rilevanti ai fini della sua capacità di trovare e mantenere un’occupazione. Essendo la disfunzione relazionale in ambito lavorativo conseguenza diretta della patologia, l’intervento correttivo sulla disfunzione ha natura esclusivamente sanitaria.

Il fatto che il lavoro riguardi la dimensione sociale dell’individuo non rende la riabilitazione lavorativa un fenomeno sociale, così come la rilevanza sociale della deambulazione non declassa a fenomeno sociale la riabilitazione motoria. L’effettivo reperimento di un posto di lavoro non è l’obiettivo dei tirocini riabilitativi; semmai può essere considerato un indicatore di esito della loro efficacia, e come tale viene utilizzato nella ricerca scientifica internazionale http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2800143/

Anche il fatto che, in alcune situazioni, le borse lavoro si protraggano per anni, non toglie nulla alla loro natura riabilitativa. Molte altre tecniche psichiatriche vengono utilizzate in modo continuativo per anni, come ad esempio i gruppi riabilitativi in contesti semiresidenziali e residenziali; lo stesso avviene per patologie croniche non psichiatriche, come ad esempio quelle neurologiche degenerative, che richiedono interventi riabilitativi protratti nel tempo per mantenere la abilità acquisite.

Utilizzando la classificazione del D.P.C.M. del 2001 che norma i LEA, le borse lavoro non dovrebbero essere inserite fra i programmi di inserimento lavorativo (che pure esistono e talvolta i Csm gestiscono, in collaborazione con altri enti, come i centri per l’impiego e i comuni) bensì fra gli interventi riabilitativi; in particolare quelli previsti a domicilio, visto che la dicitura non può essere intesa come il domicilio fisico, ma riferita ai pazienti che vivono a domicilio, e dunque intesa come sinonimo di intervento territoriale; oppure in contesto semiresidenziale.

  • 2. programmi d’inserimento sociale Il DPCM del 2001 non si dilunga a spiegare di che cosa si tratti. La vecchia Giunta del Piemonte sembra intenderli come sinonimo di progetti sostenuti da assegni terapeutici (termine che nel documento nazionale sui LEA non viene mai citato).

Si tratta di un altro grave fraintendimento. Anche se spesso, nel linguaggio comune dei servizi, vengono definiti “sussidi”, gli assegni terapeutici non hanno affatto una natura sociale; non servono a garantire l’inserimento sociale attraverso il sostegno al reddito.

Il termine stesso ne delimita il profilo, che è rivolto a realizzare obiettivi terapeutico-riabilitativi sul territorio, in situazioni in cui non è possibile, o non è utile, un intervento economico di tipo sociale o assistenziale.

Ad esempio, è terapeutico l’assegno che serve ad acquistare un abbonamento dell’autobus o del treno, per un paziente che deve partecipare a un programma riabilitativo mirato all’uso dei mezzi di trasporto pubblico, se il paziente non ha diritto a conseguire, o non è clinicamente utile che consegua al momento, diversi supporti sociali (come ad esempio una percentuale d’invalidità che gli consentirebbe la libera circolazione sui mezzi).

Ma, spesso, il più importante uso degli assegni terapeutici da parte dei Centri di salute mentale è quello di sostegno ai cosiddetti progetti di domiciliarità.

Non si tratta di interventi volti a garantire il diritto all’abitare (obiettivo di tipo sociale, che spetta ai Comuni e all’Agenzia Territoriale della Casa) ma di programmi terapeutico-riabilitativi, che si fondano sull’utilizzo di una normale abitazione, e di programmi personalizzati di sostegno, ad opera di équipes territoriali multidisciplinari, con livelli variabili di integrazione con i Csm.

L’obiettivo è profondamente coerente con i principi della riabilitazione psichiatrica: fornire i supporti materiali e operativi necessari a far sì che il paziente possa raggiungere il benessere e il funzionamento sufficiente a vivere, “nell’ambiente di sua scelta, con il minimo possibile di sostegno professionale” (Anthony, Farkas, 2009) http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf

Vivere, e curarsi, a domicilio (sia che si tratti del proprio, o di un’abitazione conseguita con il supporto anche economico del servizio) ha il significato di un addestramento e di un percorso di crescita; sfruttare un contesto privilegiato per sviluppare le risorse emotive e interpersonali che la patologia indebolisce, e che vengono stimolate in modo molto più efficace in un contesto di normale abitazione, piuttosto che in un’istituzione sanitaria.

La domiciliarità è una tecnica riabilitativa insostituibile, rivolta a persone con patologie gravi e persistenti, la cui rilevanza sanitaria è lampante e niente affatto indistinguibile dagli interventi sociali.

Storicamente, nella realtà dei servizi piemontesi si è sviluppata nella cornice istituzionale dei cosiddetti progetti individuali territoriali (anch’essi oggetto di bruschi tentativi di ridimensionamento da parte della vecchia amministrazione regionale nel 2013), per acquisire, col tempo, un’identità propria.

Ha molti punti in comune, dal punto di vista teorico e organizzativo, con modelli riabilitativi accreditati a livello internazionale, come l’Assertive Community Treatment (ATC) http://store.samhsa.gov/shin/content//SMA08-4345/BuildingYourProgram-ACT.pdf

  • 3. accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale. Questa definizione viene intesa dalla delibera della Giunta Cota come applicabile a tutti i gruppi appartamento. Nelle bozze di delibere, mai approvate, sulla regolamentazione delle residenzialità leggera, era estesa anche alle comunità alloggio e quindi a tutte le strutture diverse dalle comunità protette di tipo A e B.

Riservare alle sole strutture residenziali “pesanti” un puro carattere sanitario equivale al considerarle gli unici strumenti con un pieno potenziale terapeutico riabilitativo. In più, il fatto che rimangano le uniche strutture per cui è garantita l’assoluta gratuità per i pazienti, le loro famiglie e per i servizi sociali, porterebbe inevitabilmente a incrementarne l’utilizzo, molto al di là di quanto sia necessario dal punto di vista clinico, per pure ragioni economiche.

La vecchia normativa regionale sulla residenzialità psichiatrica, D.C.R. 357 del 1997, stabiliva una correlazione fra intensità terapeutico-riabilitativa e caratteristiche strutturali; prevedeva, per le comunità protette di tipo A e B, cui era affidato il compito teorico di assicurare gli interventi più intensivi, requisiti abitativi analoghi a quelli di strutture sanitarie simil-ospedaliere, per quanto riguarda metratura, impianti sanitari, accessibilità. http://www.comune.torino.it/servizisociali/vigilanza/normativa/dcr357-1370_97.pdf

Tali requisiti sono realizzabili solo in ambiti abitativi ampi, in grado di ospitare un numero consistente di pazienti: almeno venti, con la possibilità di affiancare più unità da venti posti nello stesso comprensorio. Strutture di questo tipo difficilmente trovano collocazione in ambito urbano, sono molto costose da acquisire e da gestire, per cui non possono sostenersi con un numero di pazienti inferiore a quello massimo previsto (non risulta che operino in Piemonte CPA o CPB con un numero di posti inferiore a 20, nonostante la normativa di per sé non lo vieti).

La residenzialità psichiatrica piemontese, nella sua evoluzione concreta, è andata oltre a questo limite, approfittando della flessibilità concessa dalla stessa DCR 357, che non prevedeva standard di personale rigidi per le strutture “leggere”, come i gruppi appartamento e le comunità alloggio.

Hanno potuto nascere strutture di dimensioni assai più ridotte ( da 5 o 6 fino a 10-12 ospiti), con caratteristiche di civile abitazione, non simili a istituzioni sanitarie tradizionali, collocate più facilmente nei centri urbani, ma con dotazioni di personale e organizzazione tali da garantire interventi ad elevata o intermedia intensità riabilitativa, potendo porsi come alternative, anche dal punto di vista economico, a CPA e CPB.

E’ stato così dimostrato che le dimensioni ampie e le caratteristiche abitative di tipo simil-istituzionale non sono un elemento necessario per garantire interventi a elevata intensità terapeutico-riabilitativa.

Al contrario esistono almeno due fattori specifici di “terapeuticità” delle strutture leggere, che le rendono, più delle strutture “pesanti”, coerenti con i principi della riabilitazione psichiatrica: il primo è la natura di normali abitazioni, anziché di istituzioni, collocate nel mondo normale, all’interno dell’ordinario tessuto di relazioni sociali; il secondo è il numero più ridotto di utenti che facilita l’uso terapeutico delle dinamiche di gruppo.

Le strutture leggere organizzate con questa logica non hanno nulla a che fare con l”accoglienza in strutture a bassa intensità assistenziale”: sono vere strutture riabilitative.

Non è dunque accettabile alcun automatismo, come quello che proponeva sulla carta (per poi contraddirlo nei fatti), la DCR 357; la leggerezza strutturale non significa, in automatico, leggerezza funzionale. 

L’esclusione, ex lege, dai LEA dovrebbe riguardare solo quelle strutture, pur esistenti, che hanno davvero una connotazione assistenziale a bassa soglia, e non tutte le strutture finora classificate come gruppi appartamento o comunità alloggio.

Mantenere all’interno delle prestazioni essenziali le strutture leggere a connotazione terapeutico riabilitativa, naturalmente, non impedirebbe di prevedere modalità personalizzate di contribuzione economica da parte degli utenti, come già ora avviene in molto situazioni, all’interno dei progetti terapeutici individuali.

QUAL E’ L’IMPATTO ECONOMICO DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA?

I progetti di riabilitazione territoriale che la delibera della vecchia Giunta regionale ha escluso dai LEA, quando organizzati in maniera efficiente, hanno l’effetto di ridurre la spesa complessiva dei Dipartimenti di salute mentale. In particolare, la residenzialità leggera e la  domiciliarità, oltre ad essere meno costosi in sé, sono i principali strumenti disponibili per facilitare le dimissioni dalle strutture residenziali “pesanti”.

I dati sulle strutture residenziali psichiatriche italiane sono chiari: nel complesso, il tasso di dimissione è molto basso. Lo studio Progres (De Girolamo et al, 2002 http://bjp.rcpsych.org/content/181/3/220.long) relativo all’anno 2000 e riguardante 1370 strutture, di cui il 73,4% coperte sulle 24 ore, ha evidenziato che il 37,7% delle strutture non ha dimesso alcun paziente in un anno; il 31,5% ha dimesso tra uno e due pazienti.

Uno studio più recente, condotto sempre da De Girolamo e collaboratori nel 2013 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23712514), su 400 pazienti residenziali, ha evidenziato che, in un anno, ne sono stati dimessi il 25%, e solo il 13% a domicilio.

Il protrarsi nel tempo, anche per anni o decenni, della permanenza in strutture residenziali, specie se ad elevata protezione e costo, è contrario ai principi della riabilitazione psichiatrica, che prevedono che il paziente viva per quanto possibile nel mondo normale, anziché in un mondo a parte rappresentato dall’istituzione.

Ma è anche un grave problema economico e dovrebbe costituire il principale target delle strategie di riduzione dei costi.

Negli ultimi anni, molti servizi, sviluppando in maniera strutturata reti di residenzialità leggera e progetti integrati di domiciliarità, sono riusciti a ridurre la spesa residenziale complessiva; sia agendo in senso preventivo, per evitare nuovi inserimenti, sia rendendo possibili dimissioni da strutture a costo elevato.

Sarebbe auspicabile che questi dati venissero resi noti il prima possibile agli Amministratori regionali e a tutti gli utenti e operatori della salute mentale.

Le prestazioni a rischio di ridimensionamento con l’esclusione dai LEA  (borse lavoro, progetti di domiciliarità, residenzialità leggera) sono  strumenti di comprovata efficacia dal punto di vista clinico ed economico. Proseguire nella direzione della Delibera del 21 maggio 2014, comporterebbe un grave peggioramento della qualità dei servizi riabilitativi psichiatrici nella Regione Piemonte e  avrebbe conseguenze economiche opposte a quelle dichiarate, perché comporterebbe un netto aumento della spesa, a vantaggio di progetti residenziali ad elevata protezione e costo.

Riabilitazione e Recovery

Negli ultimi anni, soprattutto gli autori anglosassoni hanno dato molta importanza al concetto di recovery inteso non nel senso letterale di guarigione, ma in un senso più complesso, che non ha una traduzione italiana pienamente soddisfacente, per cui si preferisce mantenere il termine originale inglese. Il termine recovery  nasce soprattutto dal contributo delle associazioni di pazienti o ex pazienti: rappresenta la versione dal punto di vista dell’utente degli obiettivi terapeutici e riabilitativi.

Termini come remissione o guarigione sociale si riferiscono alla scomparsa dei sintomi o al raggiungimento di precisi obiettivi riabilitativi (vivere autonomamente, lavorare, ecc.) Per recovery s’intende invece il versante soggettivo; ci si riferisce ai vissuti personali del paziente, ai suoi pensieri e sentimenti, non solo rispetto alla malattia ma alla sua attuale situazione di vita complessiva. S’intende il recupero della sensazione soggettiva di vivere una vita piena, soddisfacente, dotata di senso, con la possibilità di formulare obiettivi personali e autentici e di compiere liberamente delle scelte. (Warner, 2009)

Le definizioni ufficiali più recenti di riabilitazione psichiatrica, dando importanza alla soddisfazione personale del paziente, si sono avvicinate a fare propri i concetti di recovery.  Ad esempio la Uspra precisa che il proprio mandato istituzionale prevede di «Promuovere la recovery, la piena integrazione sociale, e una migliore qualità di vita per tutte le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo mentale, tale da compromettere seriamente la possibilità di condurre una vita piena di significato».

La Riabilitazione in Salute Mentale

La riabilitazione ha come oggetto i pazienti che non guariscono, o guariscono in modo parziale, pur avendo ricevuto le migliori terapie disponibili. Si occupa cioè delle malattie che gli strumenti terapeutici standard non riescono a eliminare del tutto, e dell’impatto a medio-lungo termine che esse determinano sulla vita dei pazienti.

In salute mentale, l’ambito riabilitativo riguarda una dimensione molto ampia e complessa: quella del funzionamento interpersonale e sociale, poiché i disturbi psichici gravi compromettono innanzitutto la capacità del paziente di relazionarsi in maniera adeguata con le altre persone. Da tale compromissione derivano le difficoltà a conseguire e mantenere un ruolo sociale, con forti rischi di emarginazione. (Siani, 1991)

In una significativa percentuale dei pazienti affetti da disturbi psichici maggiori (psicosi, disturbi maggiori dell’umore e gravi disturbi di personalità), la mancanza di un’adeguata strategia riabilitativa comporta, con sostanziale certezza, la perdita irreversibile di una normale integrazione sociale e quindi dei diritti di cittadinanza. (Roberts et al., 2006)

Questa categoria di pazienti, che costituisce lo 0,2-0,4% della popolazione generale dei Paesi sviluppati secondo gli studi epidemiologici, ovvero fra 200 e 400 soggetti ogni centomila abitanti (Ruggeri, 2000) un tempo era destinata all’internamento a vita in ospedale psichiatrico, che sanciva l’impossibilità di mantenere un ruolo all’interno del mondo normale, a fianco dei propri familiari, amici, concittadini.

Se la riabilitazione psichiatrica non è disponibile o è praticata in maniera insufficiente, lo stesso destino d’isolamento, o di espulsione verso un mondo a parte, è inevitabile ancora oggi, che i manicomi sono stati chiusi e terapie farmacologiche efficaci sono accessibili in modo quasi generalizzato. Infatti, nei disturbi più gravi, le terapie psichiatriche in senso stretto, e in particolare quelle psicofarmacologiche, pur agendo sui sintomi più evidenti (deliri, allucinazioni, comportamenti stravaganti, idee di suicidio), non eliminano il deficit relazionale, che spesso resta significativo e duraturo. Da qui discende il ruolo centrale delle tecniche riabilitative come complemento indispensabile alle terapie. (Craig, 2006)

La compromissione della funzione relazionale e sociale del paziente è una conseguenza diretta del suo problema di salute, per cui ottenere un migliore funzionamento inclusione sociale è obiettivo integralmente sanitario. Essendo molto ampio il concetto di funzionamento sociale, non stupisce che altrettanto ampi siano i confini di applicazione della riabilitazione psichiatrica, venendo a comprendere ambiti insoliti per altre discipline sanitarie, come il lavoro, le amicizie, il tempo libero, l’espressione artistica. Naturalmente, meritano la definizione di attività riabilitative solo quelle che si basano su una consolidata prassi professionale e, soprattutto, su dimostrazioni di efficacia nella letteratura scientifica internazionale, che è molto estesa.

Secondo uno degli Autori che più hanno contribuito allo sviluppo attuale del concetto, William Anthony dell’Università di Boston, la riabilitazione in psichiatria: «Ha lo scopo di consentire alle persone affette da malattie mentali gravi e persistenti di sviluppare le abilità emotive, sociali e intellettuali necessarie per vivere, studiare e lavorare nell’ambiente sociale di scelta, con il minimo livello possibile di sostegno professionale».  (Anthony, 2002, 2009)

Questa visione è stata ripresa e adottata con alcune modifiche dalla società professionale nordamericana che si occupa di riabilitazione, la United States Psychiatric Rehabilitation Association, che nel 2007 ha coniato la seguente definizione: «La riabilitazione psichiatrica è finalizzata ad aiutare gli utenti a sviluppare le abilità e ad accedere alle risorse di cui hanno bisogno per migliorare la loro possibilità di avere successo e di essere soddisfatti negli ambienti di vita, lavoro, studio e nei contesti sociali di loro scelta». (USPRA, 2007)

Con solo alcune sfumate differenze, i punti fondamentali qui sottolineati sono: integrazione sociale, anziché permanenza dei pazienti “fuori dal mondo” in un mondo a parte; scelta dei luoghi di vita e di cura; soddisfazione personale.

Sono tre principi che contraddicono in maniera radicale il modello dell’istituzionalizzazione dei malati di mente (Goffman, 1961; Basaglia, 1968)), che ha dominato in tutto il mondo fino agli anni 60 e 70 del 900, e che è tuttora utilizzato, spesso in maniera non dichiarata o addirittura non consapevole, anche nei paesi avanzati, compresa l’Italia, e che si basa sull’esatto contrario: isolamento sociale, assenza di possibilità di scelta e di soddisfazione dei bisogni individuali.

Una piena inclusione sociale della persona, per essere tale, deve riguardare diversi ambiti di vita: consumo (capacità di acquistare beni e servizi); produzione (partecipazione ad attività economiche e socialmente riconosciute); partecipazione politica (coinvolgimento in processi decisionali locali o nazionali); interazione sociale (integrazione con la famiglia, gli amici, il territorio).  (CASE; London School of Economics, 2002)

La principale specificità della riabilitazione in salute mentale, è che gli obiettivi non sono stabiliti a priori, in base a protocolli generali e predefiniti, bensì devono essere concordati e negoziati caso per caso, e non solo fra paziente e terapeuta. Spesso i protagonisti della negoziazione sono più di due, perché giocano un ruolo importante la famiglia, i vicini di casa, i datori di lavoro, le forze dell’ordine. (Antony, Farkas, 2009)

Naturalmente è impossibile parlare in astratto del funzionamento socio-relazionale e dell’integrazione sociale di un paziente, senza considerare gli ostacoli o viceversa i fattori facilitanti che provengono dal contesto sociale, quale che sia il problema di salute. Il ruolo cruciale dei fattori contestuali per ogni condizione sanitaria, in correlazione stretta con le dirette conseguenze della malattia, è stato enfatizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la pubblicazione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), nel 2001.

 

Bibliografia

  • Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Warner, Richard. Recovery from schizophrenia and the recovery model. Current Opinion in Psychiatry, luglio 2009
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of rehabilitation psychiatry. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • Craig, Tom, in Roberts, Glenn et al. Enabling recovery, citato
  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  • Anthony, W. et al. . “Psychiatric Rehabilitation.” Boston, MA: Center for Psychiatric Rehabilitation, Sargent College of Health and Rehabilitation Sciences. Boston, MA: Boston University. 2002
  • Anthony, William. Psychiatric rehabilitation: a key to prevention. Psychiatric Services, gen 2009
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, uspra.org
  • The Centre for the Analysis of Social Exclusion at the London School of Economics, 2002
  • Basaglia, Franco. L’istituzione negata. Einaudi, 1968
  • Goffman, Erving. Asylums (1961) trad it 1968, Einaudi
  • Warner, Richard e Leff, Julian; Social inclusion of people with mental illness, Cambridge University Press, 2006
  • Antony, William e Farkas Marianne; A primer on psychiatric rehabilitation process. 2009 http://www.bu.edu/cpr/products/books/titles/prprimer.pdf
  • WHO http://www.who.int/classifications/icf/en/