
Questo breve scritto inizia con una storia raccontatami da mio padre, generale dei paracadutisti, ed alla sua memoria è dedicato.
Quando era ancora un giovane tenente, di fresca nomina, aveva ricevuto un incarico gravoso ed importante, occuparsi delle procedure di sicurezza di una caserma operativa.
Di fatto doveva verificare che le sentinelle e le ronde fossero sempre presenti nei luoghi strategici onde evitare possibili incursioni e violazioni del perimetro di sicurezza.
Come tutti i suoi predecessori si mise a studiare per bene il piano di sicurezza già presente e che in genere nessuno modifica mai. Tutto gli sembrava corretto tranne due cose che non comprendeva: in estate era prevista una presenza extra di una sentinella armata in un giardino della caserma, luogo di nessuna utilità strategica, ed ancora, la ronda armata nel giro di ispezione doveva passare una volta al giorno nei pressi di una fontana circolare, ormai in disuso e riempita di cemento.
Pur non rischiando, e confermando provvisoriamente il piano di sicurezza, per curiosità volle cercare di capire queste due apparenti stranezze. Stava di fatto ripercorrendo delle storie di storie, come nel nostro lavoro non credete? Riuscì a svelare l’arcano solo molti mesi dopo, invitando un vecchio maresciallo in pensione che comunque amava partecipare alle feste insieme ai suoi ex commilitoni.
Ecco gli arcani: le susine del colonnello e le carpe del congedo.

Partiamo dalle susine. Molti anni prima nel giardino di cui sopra erano stati piantati degli alberi di susine, che in estate producevano delle piccole e dolci susine e che venivano regolarmente depredate dai soldati, il colonnello geloso dei suoi frutti aveva risolto piazzando una sentinella a garanzia del raccolto.
Nella fontana invece anni prima vivevano delle carpe, e fra i militari era usanza catturarle a mani nude poco prima del congedo, questo aveva causato problemi disciplinari per cui la ronda aveva iniziato a passare di lì, e poi, onde risolvere definitivamente il problema, la fontana era stata svuotata e riempita di cemento.
Nonostante tutto questo fosse accaduto molti anni prima, nel piano di sicurezza permanevano queste disposizioni, che nessuno si era mai preso la briga di modificare; se qualcuno l’aveva scritto “deve” avere un senso, meglio non rischiare no?
Vi lascio intuire le modifiche introdotte dal tenentino, curioso e dal mio punto di vista collega virtuoso ante litteram.
Pochi mesi fa stavamo discutendo in una equipe di colleghi che si occupa di un articolato sistema di alloggi con diversi gradi di protezione, tutti situati nel centro della città in cui operiamo.
Ci sono sette monolocali e tre gruppi appartamento veri e propri, con coperture orarie diverse, tutti i locali insistono sulla grande piazza della cittadina di cui sopra, e sono coperti dalla stessa equipe, che si divide fra luoghi e forme pensiero, obbligata a moleste elasticità del pensare.
Il tema erano i regali natalizi per i pazienti.
L’equipe stava decidendo il budget con cui si sarebbero fatti i regali per tutti.
Mi sono permesso, in virtù del mio ruolo, di questionare la vicenda: perché fare regali a tutti? Perché deve pagare la struttura e non invece gli operatori? Ed ancora perché mai i pazienti non devono contraccambiare? Ovviamente, ma forse non tanto, si è scatenato un vespaio.
Alcune frasi: “nella comunità dove lavoravo si faceva così”, “non mi sembra giusto mettere soldi miei”, “i pazienti non hanno denaro, non possiamo chiedergli niente” e via dicendo. Premetto che sono fiero dei miei colleghi, sono appassionati, determinati, giovani ed hanno voglia di imparare.
Quanto vado ad argomentare non è certo un giudizio sul loro operato. Piuttosto voglio pormi domande sulle ovvietà sulle consuetudini, sulle prassi indiscusse.
Dante ci ricorda che il velo dell’ovvietà è così sottile che lo notiamo solo una volta che lo abbiamo lacerato. Presidiare l’ovvio è il nostro mestiere, abitare le abitudini con occhio attento un nostro dovere. Tornando al natale, qual è la cosa giusta da fare?
Come i miei colleghi potevano districarsi in pensieri faticosi allorché pressati dalla fatica della quotidianità al confronto con pazienti psichiatrici gravi?
Una risposta univoca prescrittiva non credo esista se non caso per caso, ma una bussola per il pensare va usata, nonostante la fatica che produce. Perché pensare ed usar metafore è per gli psicologi cosa onerosa e ponderosa.
Di fronte a quante susine del comandante ci troviamo quotidianamente? Partendo dai quarantacinque minuti delle sedute individuali in poi per capirci.
Lavorare con i pazienti psichiatrici è faticoso ma se non percorriamo storie, o per dirla con Bruno Vezzani ri-veliamo storie, aggiungendo cioè veli di significato e non togliendoli (svelare) siamo sconfitti per sempre! Saremo sempre più costretti a fare i guardiani della cronicità, guardando a pazienti seriali e sentendoci impotenti ed incapaci di “curare”.
Generazioni di nativi istituzionalizzati crescono, invecchiano ed accrescono le fila del pensiero manicomiale che si sta lentamente riaffermando, talvolta celato in norme e leggi a stampo sanitario che accreditano i metri del gabinetto e sperdono i pazienti in un labirinto senza fine.
Che possiamo fare noi psicologi? Come possiamo introdurre discontinuità collegate ai nostri saperi?
Non cercando gloria e nobel per la psicologia, vorrei provare a testimoniare la nostra fatica quotidiana, soprattutto per i giovani colleghi. Li vedo motivati ma sofferenti. Ancorati a vetusti concetti di setting che li auto-squalificano nel loro operare quotidiano con i pazienti psichiatrici gravi. Beh per forza, direte voi, quello non è lavoro da psicologi, quella non è certo psicoterapia.
Sento queste frasi così tante volte che ormai non mi irrito più.
Esistendo decine di definizioni di psicoterapia, una per ogni collega che se ne è occupato, non voglio certo aggiungerne ancora, per cui mi limiterei a citare un vecchio allenatore di calcio Vujadin Boškov che diceva “rigore è quando arbitro dà”. Io direi psicoterapia è dove la mente del paziente è!
Tornando a natale, ai regali ed alle susine del comandante, vi racconto come è andata a finire, tenendo conto che si tratta solo di una soluzione provvisoria.
L’equipe maledicendomi apertamente, ha portato la discussione nelle riunioni di condominio e di piazza che facciamo con i pazienti, gruppi allargati co-condotti da uno psichiatra ed uno psicoterapeuta. E’ venuto fuori di tutto. Ricordi, stupore, dubbi, idee balzane, proposte variegate sia dei pazienti che degli operatori. Un gran casino insomma.
Uno dei pazienti ha commentato “ma non si fa così in una comunità che si rispetti! [..] si fanno i regali e basta” questo ha riaperto la discussione sul fatto che quelli sono gruppi appartamento e che i progetti si creano insieme.
La soluzione pratica è stata una via di mezzo ma non era così importante in fondo.
Mi gratifica più lo sforzo doloroso per non smettere di pensare, per ristudiare gli ordini di servizio per controllare fontane cementate, per aprire il pensiero e non chiuderlo.
Intendiamoci questo è molto più faticoso, ma non ci sono alternative. Altrimenti la via del manicomio, mai chiusa veramente nel pensiero, si riaprirà sotto forme legislative, magari esaltate e descritte come fatte nell’interesse vero dei pazienti.
Esistono tante susine del comandante e fontane del congedo, credo vadano ricercate anche con leggerezza e curiosità. Mio padre modificando gli ordini di servizio, dopo faticose e lunghe ricerche me lo raccontava col sorriso di chi ne ha viste tante, e notavo una velata soddisfazione in un uomo che per mestiere era a contatto con la morte quasi quotidianamente.
Dei paracadutisti dicevano uomini coraggiosi, un po’ pazzi ed un po’ poeti.
Ma questa definizione non si attaglia anche ai giovani psicologi?
Diego Menchi