Riabilitazione Territoriale

Obiettivo essenziale della riabilitazione psichiatrica e l’apprendimento di abilità sociali. Una tecnica che si pone in tale prospettiva, ed è oggetto di studi numerosi a livello internazionale, è il cosiddetto Social skills training.

Nasce dalle teorie di apprendimento sociale note come Social learning, (Bandura 1977) corrente del comportamentismo che è andata oltre il semplice concetto di rinforzo per approfondire un’altra modalità di apprendimento, quella dell’imparare osservando gli altri. Si tratta di tecniche comportamentali di apprendimento, in genere somministrate in moduli semistrutturati, in setting di gruppo.

Per social skills (abilità sociali) s’intendono le componenti comportamentali (modificabili dall’apprendimento) della competenza sociale, cioè l’abilità di raggiungere obiettivi personali nell’interazione con gli altri, e nei diversi contesti di vita.

Nella proposta di Autori influenti come Robert Paul Liberman, (Liberman et. al, 1989) i moduli semistrutturati devono riguardare gli ambiti di vita fondamentali per il paziente, dalla gestione dei farmaci e dei sintomi, alle relazioni interpersonali, al lavoro, alle amicizie, alla famiglia, ecc.

Si deve dunque dare per acquisito sperimentalmente il concetto che, nei disturbi psichici gravi, le abilità sociali carenti possano essere apprese, attraverso programmi specifici, che sfruttano soprattutto i meccanismi di gruppo.

Questa pratica è molto presente nelle esperienze italiane e piemontesi, anche se viene per lo più attuata con modalità diverse da quelle contenute nei rigidi protocolli manualizzati delle ricerche internazionali.

L’apprendimento sociale attraverso il gruppo è a fondamento, ad esempio, degli interventi in Centro diurno, sia quelli impostati con singole attività riabilitative di gruppo, centrate su attività quotidiane o ludiche, ma che richiedano una più o meno impegnativa performance relazionale (quelle che fanno “rizzare i capelli in testa” agli amministratori, come il gruppo cucina, gruppo giornali, gruppo calcio…); sia quelli in cui è la condivisione della quotidianità, il clima sociale e l’atmosfera del gruppo, più che singole attività strutturate, a fornire da stimolo all’apprendimento sociale: le cosiddette comunità diurne.

Un altro modello riabilitativo territoriale più vicino alle esperienze italiane, e rispondente alle esigenza di forte integrazione degli interventi  espressa dal Piano di Azioni Nazionale sulla salute mentale del 2013,  è conosciuto nella letteratura internazionale come Training in Community Living (Stein, Test, 1980).

Secondo tale approccio, l’apprendimento di abilità sociali deve avvenire nei contesti di vita reale e non  in contesti artificiali; devono essere gli operatori a raggiungere l’utente nei suoi luoghi di vita abituali, sul territorio, e non viceversa.

Da questa filosofia nasce un modello d’intervento validato sperimentalmente: l’Assertive Community Treatment (ACT) Il modello ACT si fonda su criteri organizzativi molto specifici e precisi (Sahmsa.gov) : équipe territoriale multidisciplinare  (medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali); rigidi criteri di ammissione alla presa in carico; utenti molto gravi con elevati tassi di recidiva e ospedalizzazione; numero limitato di pazienti in carico (dieci-quindici utenti per ogni operatore).

L’approccio si definisce assertivo in quanto implica una propensione attiva nei confronti degli utenti o delle famiglie che non chiedono o che sabotano il trattamento. L’obiettivo è: zero drop out. D’altra parte assertività non significa coercizione: viene perseguito il coinvolgimento costante, e il più ampio possibile, dell’utente nella definizione degli obiettivi.

Dal punto di vista organizzativo l’approccio è di squadra: più di un componente dell’équipe ha contatti regolari con ogni singolo utente; si tengono riunioni d’équipe quotidiane; i casi vengono condivisi, la responsabilità clinica appartiene non al singolo operatore ma all’équipe; il responsabile dell’équipe è coinvolto direttamente nel lavoro clinico. Esiste un progetto clinico definito (e scritto) per ogni utente.

Gli interventi devono essere flessibili e ad ampio raggio: dalla gestione territoriale della crisi, alla gestione clinica ordinaria, alla riabilitazione, all’inclusione sociale. Devono essere possibili interventi in continuità 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno; devono essere previsti interventi attivi e costanti sul  contesto: familiari o reti  di supporto. Si deve mirare al coinvolgimento diretto di volontari e/o di utenti e familiari esperti.

Come già detto, è una modalità organizzativa che ricorda molto da vicino quella delineata dal Piano d’Azioni nazionale per la salute mentale per la presa in carico dei pazienti gravi e complessi. Corrisponde in maniera abbastanza precisa ai progetti di Domiciliarità e all’organizzazione territoriale “forte”, che alcuni Csm italiani e piemontesi si sforzano ancora di garantire, nonostante il sottigliarsi drammatico delle risorse.

A livello internazionale il modello ACT è stato studiato in numerosi studi controllati e ha dato i seguenti risultati: riduzione significativa del tasso di ospedalizzazione; miglioramento dell’adesione ai trattamenti e della soddisfazione dell’utente; miglioramento di alcuni esiti di funzionamento sociale (ma non tutti). Per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi, l’Act non è significativamente superiore ai trattamenti standard, il che non è sorprendente, visto il carattere riabilitativo e non strettamente terapeutico, del modello (Roberts et al. 2006).

Bibliografia

  • Bandura, A. . Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change. Psychological Review, 1977
  • Liberman Robert Paul et al, Social Skills Training for Psychiatric Patients, New York, Pergamon Press, 1989,

Normative e Riabilitazione

I principi della riabilitazione proposti dalla letteratura scientifica internazionale, trovano una sostanziale corrispondenza nei fondamenti normativi dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese, così come essa è definita (almeno sulla carta) dal Progetto Obiettivo Nazionale nella sua ultima versione (1998-2000) e dal Piano di Azioni Nazionale per la Salute mentale, approvato dalla Conferenza Unificata Stato Regioni nel 2013 e subito recepito dalla Regione Piemonte.

Il Progetto Obiettivo definisce in maniera inequivoca che la priorità va: “ad interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali gravi, da cui possono derivare disabilità tali da compromettere l’autonomia e l’esercizio dei diritti di cittadinanza con alto rischio di cronicizzazione e di emarginazione sociale».

Il Piano di Azioni del 2013 stabilisce quattro aree di bisogni prioritari, di cui la prima (area esordi e intervento precoce) e la terza (area disturbi gravi, persistenti e complessi) riguardano in maniera diretta i pazienti di cui si occupa la letteratura sulla riabilitazione psichiatrica e sulla recovery.

Ma cosa s’intende per disturbi gravi, persistenti e complessi? Nella letteratura internazionale, questo concetto, descritto come malattia mentale grave, è definito in maniere diverse; una delle definizioni più semplici pragmatiche si deve ad un’Autrice italiana, Mirella Ruggeri, dell’Università di Verona, (Ruggeri et al., 2000) la quale propone tre criteri:

  • uno clinico (diagnosi di disturbo psichico maggiore, ovvero psicosi, disturbo maggiore dell’umore o disturbo grave di personalità)
  • uno di funzionamento individuale (funzionamento relazionale e sociale gravemente compromesso, come misurato da una scala validata, il VGF, che deve avere un punteggio inferiore a 50);
  • uno di processo istituzionale (necessità di uso continuativo dei servizi psichiatrici per più di due anni).

Se almeno due di questi criteri vengono soddisfatti, si è in presenza di un disturbo grave e invalidante. La prevalenza della malattia mentale grave, così definita, è molto bassa: circa lo 0,2 % l’anno (200 pazienti ogni centomila abitanti), ma riguarda la sottopopolazione di utenti più sofferente e bisognosa, appunto quella cui devono essere destinate la maggior parte delle risorse terapeutiche riabilitative.

Naturalmente la realizzazione pratica, nella realtà concreta, dei principi sanciti dalla letteratura e dalle normative, dipende da come i servizi psichiatrici sono organizzati e dalla cultura (dalle idee e dai valori di fondo) degli operatori che vi lavorano.

Anche gli aspetti organizzativi necessari sono sintetizzati in definizioni ufficiali, come quella del Royal College of Psychiatrists britannico: ” L’approccio riabilitativo ideale comprende un insieme di servizi ad ampio raggio, che garantiscono continuità, coordinamento e orientamento al punto di vista dell’utente”. (Roberts et al., 2006)

Secondo l’Uspra : “I servizi riabilitativi sono collaborativi, diretti alla persona e individualizzati. Tali servizi sono una componente essenziale della rete dei servizi sanitari e sociali e dovrebbero essere evidence based”. (USPRA, 2007)

Anche il Piano di Azioni Nazionale del 2013 prescrive un’impostazione organizzativa precisa: “La presa in carico si rivolge ad un soggetto che è riconosciuto parte attiva di una relazione di cura e si fonda su un rapporto di alleanza e di fiducia con l’utente, i suoi familiari e le persone del suo ambiente di vita. Il servizio psichiatrico che si assume la titolarità della presa in carico di un utente deve comunque offrire un supporto complessivo in tutto il percorso del paziente (interventi territoriali, ospedalieri, di emergenza/urgenza, residenziali e semiresidenziali) e garantire la risposta in tutte le fasi del trattamento”.

Non c’è dubbio che per garantire gli ambiziosi, risultati della riabilitazione psichiatrica è necessario un insieme organizzato di attività integrate e non singoli interventi fra loro non coordinati. A questo proposito il Piano d’Azioni arriva a specificare che: “ il concetto di LEA in salute mentale viene inteso come percorsi di presa in carico e cura esigibili e non come singole prestazioni, tenendo conto della particolare complessità, multifattorialità e necessità di trattamenti integrati per i disturbi psichiatrici maggiori, ma anche in relazione ai fattori di rischio biopsicosociale e agli interventi di riabilitazione e inclusione sociale”.

In questo senso è escluso che un Dipartimento di salute mentale che si limiti (come purtroppo spesso accade) ad erogare frammentarie prestazioni mediche o psicologiche, secondo un’ottica da ambulatorio specialistico, o interventi ospedalieri, possa ritenere di adempiere al proprio mandato istituzionale.

Curare adeguatamente i pazienti più gravi e prioritari significa applicare alcune strategie di fondo della riabilitazione psichiatrica (Siani et al., 1991): multidisciplinarita’ per l’ampiezza degli ambiti di intervento, che richiedono  varie professionalità: medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali; stretta integrazione e continuita’ di ogni intervento, medico, psicologico o socio-assistenziale, che deve essere coordinato con gli altri in una strategia complessiva a medio-lungo termine; territorialita’ perché gli operatori devono conoscere e agire ogni volta che serve nel contesto di vita del paziente, anziché incontrarlo solo in ospedale o in ambulatorio.

Il fatto che gli strumenti riabilitativi utilizzati debbano essere evidence based, ovvero studiati con metodologia scientifica che ne dimostri l’efficacia, è un altro principio ineludibile.

Non è esagerato dire che, se non applicano i principi della riabilitazione psichiatrica, i servizi di salute mentale, semplicemente, non fanno  il loro mestiere, cioè non sono in grado di realizzare il mandato istituzionale previsto dalle leggi,  per cui vengono finanziati dal contribuente.

 

Bibliografia

  • Ruggeri, Mirella et al. Definition and prevalence of severe and persistent mental illness, The British Journal of Psychiatry (2000) 177: 149-155
  •  Siani, Roberta et al. Strategie di psicoterapia e riabilitazione, Feltrinelli, 1991
  • Roberts, Glenn et al. Enabling recovery. The principles and practice of psychiatric rehabilitation. Royal College of Psychiatrists, ottobre 2006
  • USPRA United States Psychiatric Rehabilitation Association, www.uspra.org

NATIVI ISTITUZIONALIZZATI. Quando la Prassi soffoca il Pensiero

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Questo breve scritto inizia con una storia raccontatami da mio padre, generale dei paracadutisti, ed alla sua memoria è dedicato.

Quando era ancora un giovane tenente, di fresca nomina, aveva ricevuto un incarico gravoso ed importante, occuparsi delle procedure di sicurezza di una caserma operativa.

Di fatto doveva verificare che le sentinelle e le ronde fossero sempre presenti nei luoghi strategici onde evitare possibili incursioni e violazioni del perimetro di sicurezza.

Come tutti i suoi predecessori si mise a studiare per bene il piano di sicurezza già presente e che in genere nessuno modifica mai. Tutto gli sembrava corretto tranne due cose che non comprendeva: in estate era prevista una presenza extra di una sentinella armata in un giardino della caserma, luogo di nessuna utilità strategica, ed ancora,  la ronda armata nel giro di ispezione doveva passare una volta al giorno nei pressi di una fontana circolare, ormai in disuso e riempita di cemento.

Pur non rischiando, e confermando provvisoriamente il piano di sicurezza, per curiosità volle cercare di capire queste due apparenti stranezze. Stava di fatto ripercorrendo delle storie di storie, come nel nostro lavoro non credete? Riuscì a svelare l’arcano solo molti mesi dopo, invitando un vecchio maresciallo in pensione che comunque amava partecipare alle feste insieme ai suoi ex commilitoni.

Ecco gli arcani: le susine del colonnello e le carpe del congedo.

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Partiamo dalle susine. Molti anni prima nel giardino di cui sopra erano stati piantati degli alberi di susine, che in estate producevano delle piccole e dolci susine e che venivano regolarmente depredate dai soldati, il colonnello geloso dei suoi frutti aveva risolto piazzando una sentinella a garanzia del raccolto.

Nella fontana invece anni prima vivevano delle carpe, e fra i militari era usanza catturarle a mani nude poco prima del congedo, questo aveva causato problemi disciplinari  per cui la ronda aveva iniziato a passare di lì, e poi, onde risolvere definitivamente il problema, la fontana era stata svuotata e riempita di cemento.

Nonostante tutto questo fosse accaduto molti anni prima, nel piano di sicurezza permanevano queste disposizioni, che nessuno si era mai preso la briga di modificare; se qualcuno l’aveva scritto “deve” avere un senso, meglio non rischiare no?

Vi lascio intuire le modifiche introdotte dal tenentino, curioso e dal mio punto di vista collega virtuoso ante litteram.

Pochi mesi fa stavamo discutendo in una equipe di colleghi che si occupa di un articolato sistema di alloggi con diversi gradi di protezione, tutti situati nel centro della città in cui operiamo.

Ci sono sette monolocali e tre gruppi appartamento veri e propri, con coperture orarie diverse, tutti i locali insistono sulla grande piazza della cittadina di cui sopra, e sono coperti dalla stessa equipe, che si divide fra luoghi e forme pensiero, obbligata a moleste elasticità del pensare.

Il tema erano i regali natalizi per i pazienti.

L’equipe stava decidendo il budget con cui si sarebbero fatti i regali per tutti.

Mi sono permesso, in virtù del mio ruolo, di questionare la vicenda: perché fare regali a tutti? Perché deve pagare la struttura e non invece gli operatori? Ed ancora perché mai i pazienti non devono contraccambiare? Ovviamente, ma forse non tanto, si è scatenato un vespaio.

Alcune frasi: “nella comunità dove lavoravo si faceva così”, “non mi sembra giusto mettere soldi miei”, “i pazienti non hanno denaro, non possiamo chiedergli niente” e via dicendo. Premetto che sono fiero dei miei colleghi, sono appassionati, determinati, giovani ed hanno voglia di imparare.

Quanto vado ad argomentare non è certo un giudizio sul loro operato. Piuttosto voglio pormi domande sulle ovvietà sulle consuetudini, sulle prassi indiscusse.

Dante ci ricorda che il velo dell’ovvietà è così sottile che lo notiamo solo una volta che lo abbiamo lacerato. Presidiare l’ovvio è il nostro mestiere,  abitare le abitudini con occhio attento un nostro dovere. Tornando al natale, qual è la cosa giusta da fare?

Come i miei colleghi potevano districarsi in pensieri faticosi allorché pressati dalla fatica della quotidianità al confronto con pazienti psichiatrici gravi?

Una risposta univoca prescrittiva non credo esista se non caso per caso, ma una bussola per il pensare va usata, nonostante la fatica che produce. Perché pensare ed usar metafore è per gli psicologi cosa onerosa e ponderosa.

Di fronte a quante susine del comandante ci troviamo quotidianamente? Partendo dai quarantacinque minuti delle sedute individuali in poi per capirci.

Lavorare con i pazienti psichiatrici è faticoso ma se non percorriamo storie, o per dirla con Bruno Vezzani ri-veliamo storie, aggiungendo cioè veli di significato e non togliendoli (svelare) siamo sconfitti per sempre! Saremo sempre più costretti a fare i guardiani della cronicità, guardando a pazienti seriali e sentendoci impotenti ed incapaci di “curare”.

Generazioni di nativi istituzionalizzati crescono, invecchiano ed accrescono le fila del pensiero manicomiale che si sta lentamente riaffermando, talvolta celato in norme e leggi a stampo sanitario che accreditano i metri del gabinetto e sperdono i pazienti in un labirinto senza fine.

Che possiamo fare noi psicologi? Come possiamo introdurre discontinuità collegate ai nostri saperi?

Non cercando gloria e nobel per la psicologia, vorrei provare a testimoniare la nostra fatica quotidiana, soprattutto per i giovani colleghi. Li vedo motivati ma sofferenti. Ancorati a vetusti concetti di setting che li auto-squalificano nel loro operare quotidiano con i pazienti psichiatrici gravi. Beh per forza, direte voi, quello non è lavoro da psicologi, quella non è certo psicoterapia.

Sento queste frasi così tante volte che ormai non mi irrito più.

Esistendo decine di definizioni di psicoterapia, una per ogni collega che se ne è occupato, non voglio certo aggiungerne ancora, per cui mi limiterei a citare un vecchio allenatore di calcio Vujadin Boškov che diceva “rigore è quando arbitro dà”. Io direi psicoterapia è dove la mente del paziente è!

Tornando a natale, ai regali ed alle susine del comandante, vi racconto come è andata a finire, tenendo conto che si tratta solo di una soluzione provvisoria.

L’equipe maledicendomi apertamente, ha portato la discussione nelle riunioni di condominio e di piazza che facciamo con i pazienti, gruppi allargati co-condotti da uno psichiatra ed uno psicoterapeuta. E’ venuto fuori di tutto. Ricordi, stupore, dubbi, idee balzane, proposte variegate sia dei pazienti che degli operatori. Un gran casino insomma.

Uno dei pazienti ha commentato “ma non si fa così in una comunità che si rispetti! [..] si fanno i regali e basta” questo ha riaperto la discussione sul fatto che quelli sono gruppi appartamento e che i progetti si creano insieme.

La soluzione pratica è stata una via di mezzo ma non era così importante in fondo.

Mi gratifica più lo sforzo doloroso per non smettere di pensare, per ristudiare gli ordini di servizio per controllare fontane cementate, per aprire il pensiero e non chiuderlo.

Intendiamoci questo è molto più faticoso, ma non ci sono alternative. Altrimenti la via del manicomio, mai chiusa veramente nel pensiero, si riaprirà sotto forme legislative, magari esaltate e descritte come fatte nell’interesse vero dei pazienti.

Esistono tante susine del comandante e fontane del congedo, credo vadano ricercate anche con leggerezza e curiosità. Mio padre modificando gli ordini di servizio, dopo faticose e lunghe ricerche me lo raccontava col sorriso di chi ne ha viste tante, e notavo una velata soddisfazione in un uomo che per mestiere era a contatto con la morte quasi quotidianamente.

Dei paracadutisti dicevano uomini coraggiosi, un po’ pazzi ed un po’ poeti.

Ma questa definizione non si attaglia anche ai giovani psicologi?

 

Diego Menchi